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“Come eravamo. Storie dalla grande storia dell’uomo” di Guido Barbujani

a cura di Giacomo Milazzo

Recensione

Per quanto la ricerca in un determinato settore possa portare dati via via più recenti e diversi, è innegabile l’origine africana dell’umanità: lo provano i dati di cui disponiamo, e di diverso tipo: fossili, archeologici e genetici, e diversificare le fonti contribuisce a ridurre al minimo il rischio di sbagliarsi, tanto più grande quanto più ci si affida ad una sola fonte di informazioni. Probabilmente nel futuro cambieremo idea su parecchi aspetti della nostra storia: su come chiamare le diverse forme umane ed a quali specie attribuire certi fossili; su che rapporti abbiano avuto fra loro le varie specie e popolazioni; sulle rotte lungo le quali si sono mosse le migrazioni; e su quanto selezione naturale ed eventi casuali abbiano contribuito a plasmare il nostro aspetto e la nostra mente. Ma l’impianto complessivo, e questa è una previsione facile, non cambierà, perché per cambiarlo servirebbe una massa gigantesca di dati in contraddizione con i dati di cui disponiamo oggi, e questi ultimi sono davvero tanti.

E finalmente possiamo vederli, i nostri antenati. Grazie alla bravura degli artisti, dei paleontologi che hanno disseppellito e amorevolmente ricostruito vecchi scheletri e dei genetisti che spesso sono riusciti a leggere il loro DNA, la nostra curiosità trova un oggetto più concreto, che ci interpella e ci emoziona. Guido Barbujani, uno dei più importanti genetisti italiani ci racconta la storia di come eravamo e com’era la vita quotidiana milioni di anni fa, a partire dai volti dei nostri antenati restituiti in quindici magnifiche sculture iperrealistiche, una per ognuno degli altrettanto affascinanti capitoli.

Per comprendere a fondo la storia dell’evoluzione della nostra specie, e di quelle che per tratti geologicamente brevissimi ma umanamente lunghissimi, ci hanno accompagnato, bisogna guardare negli occhi i nostri antenati,  perché quelli siamo noi. Dai primi passi dei primi ominidi delle pianure africane fino alla produzione di pitture rupestri, da queste alle cattedrali, ai monumenti e persino ai parlamenti. Molto è stato scritto sul cammino evolutivo dell’umanità ed è stato grazie al lavoro dei paleontologi, degli archeologi, dei geologi, dei genetisti. Oggi abbiamo fatto un passo in più perché grazie alla capacità di leggere a fondo il DNA di tante persone diverse sia del presente che del passato, adesso possiamo attribuire anche un aspetto a queste persone, e vedere come erano fatti,  possiamo guardare negli occhi tanti nostri antenati, da Homo erectus, il primo che ha imparato a usare il fuoco, alle piccole creature dell’isola di Flores in Indonesia, che qualcuno ha proposto di chiamare Hobbit (scatenando le ire e le denunce per plagio da parte degli eredi di Tolkien), fino ai vecchi europei, gli uomini di Neanderthal, ma anche quelli più nuovi come l’uomo dei ghiacci del museo di Bolzano, soprannominato affettuosamente Ötzi. E così, guardandoli negli occhi proprio come noi guardiamo negli occhi i nostri nonni e talvolta i bisnonni in vecchie fotografie di famiglia, forse potremmo capire meglio che nonostante tanti anni, migliaia o milioni di anni, ci separino da loro nel tempo, in un certo senso noi siamo loro.

Approfondimento

Quasi in un seguito del suo libro precedente (“Il giro del mondo in sei milioni di anni“, scritto in collaborazione con Andrea Brunelli, già recensito), l’autore approfondisce e aggiorna le informazioni sui nostri antenati, soffermandosi con attenzione sull’intreccio delle relazioni che hanno caratterizzato l’albero evolutivo, o meglio il cespuglio, degli ominini.
Per quasi tutti noi il passato si ferma un paio di generazioni fa: quanti di noi conoscono il nome di tutti i loro bisnonni? Eppure se abbiamo certe caratteristiche lo dobbiamo a loro. E le genealogie si moltiplicano: due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via. E ognuno di loro aveva a sua volta otto bisnonni…Venti generazioni, più o meno due secoli e mezzo, fa 220 antenati: un milione circa. E nel DNA di ognuno di noi c’è un milionesimo del loro DNA. Pochissimo, dal punto di vista strettamente genetico, ma molto da altri punti di vista. Siamo elementi di una continuità genealogica che proviene dalle profondità del tempo e si estenderà nel futuro, se non saremo così stupidi da compromettere la nostra stessa sopravvivenza.

Alla fine del 2022 la popolazione mondiale ha superato la soglia degli 8 miliardi di individui, il 7% vivente dei circa 114 miliardi di tutti gli esseri umani che hanno mai abitato il nostro pianeta. Dai 4 milioni di circa 10.000 anni fa, all’inizio della rivoluzione agricola, l’umanità è salita gradualmente a circa 800 milioni al momento della prima rivoluzione industriale, avvenuta solo due secoli fa. In confronto all’arco temporale della storia umana, che abbraccia più di due milioni di anni, l’incremento del numero di persone sulla Terra si è verificato principalmente negli ultimi due secoli, risultando in una concentrazione senza precedenti.

Attualmente, la sensazione diffusa è quella di vivere in un ambiente urbano frenetico, con metropoli che superano facilmente i 20 milioni di abitanti. Le stime dei paleo-demografi suggeriscono che circa 100.000 anni fa, la nostra specie consisteva in poche decine di migliaia di individui organizzati in gruppi di dimensioni ridotte, spesso non superiori al centinaio. Gli incontri con altri gruppi erano rari in quel periodo. La maggior parte degli esseri umani abitava in Africa, la culla dell’umanità, ma alcuni iniziavano già a spostarsi verso altri continenti. È interessante notare che, nonostante gli Sapiens non fossero gli unici esseri umani intelligenti sulla Terra, le altre specie “diversamente umane” erano presenti in modo più discreto.

Attualmente, abbiamo prove incontrovertibili che i Sapiens africani, caratterizzati dalla corporatura snella, la testa tondeggiante e un volto aggraziato ed espressivo, hanno avuto incontri significativi con altre specie intelligenti. Tra questi incontri rientrano quelli con i Neanderthal eurasiatici, caratterizzati da una struttura fisica più robusta, una faccia prognata, arcate sopracciliari prominenti e un cranio allungato all’indietro. Un secondo incontro avvenne con una specie umana di origine asiatica, della quale al momento non conosciamo la fisionomia completa. Recenti ritrovamenti, come il dito mignolo e alcuni denti di una donna appartenente a questa specie rinvenuti nella caverna di Denisova, alle pendici dei monti Altai in Siberia, hanno ampliato la nostra comprensione. In questo stesso sito è stato scoperto anche un frammento di femore appartenente a una donna ibrida, con un padre di origine denisoviana e una madre di origine neanderthaliana.

Queste informazioni sono rese possibili grazie al lavoro di Svante Pääbo, vincitore del Premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina nel 2022, il quale ha contribuito a sviluppare la paleogenomica. Disciplina che rivela storie sorprendenti del nostro passato profondo. Nel 2010, il team di Pääbo presso il Max Planck Institute for Human Evolution di Lipsia ha sequenziato i genomi sia dei Neanderthal che della Denisoviana, offrendo una prospettiva senza precedenti. Tuttavia, la conoscenza della fisionomia dei nostri antenati rimane di grande importanza per comprendere appieno la nostra storia evolutiva.

L’autore, Guido Barbujani, rinomato genetista e apprezzato divulgatore scientifico, espone in questo libro le affascinanti ragioni che stanno dietro alle nostre radici umane, arricchendole con l’immaginare i tratti e lo stile di vita dei nostri antenati ad offrirci un’opportunità unica di stabilire un contatto emozionale con loro, elemento cruciale nella nostra evoluzione.

Attraverso illustrazioni suggestive, il libro ci guida in un viaggio preistorico, presentandoci una vivace galleria di ritratti. Cercando di interpretare il suo sorriso affrontiamo lo sguardo enigmatico della famosissima “Lucy”, l’australopitecina vissuta oltre tre milioni di anni fa e tragicamente morta cadendo da un albero, rimasta sepolta fino al 24 novembre 1974, che potrebbe essere stata una nostra diretta parente,. Ci emozioniamo nel guardare il “ragazzo del Turkana”, appartenente ad Homo ergaster e vissuto 1,6 milioni di anni fa in Africa Orientale, sapendo che potrebbe essere stato il primo umano a controllare il fuoco, un passo decisivo nella nostra evoluzione.

Presso la “Caverna delle Ossa”, in Romania, ci imbattiamo in un Sapiens vissuto 37 mila anni fa, che aveva un trisavolo neandertaliano. Poi, conosciamo da vicino Ötzi, il misterioso uomo tatuato emergente dal ghiacciaio di Similaun nel 1991, la cui drammatica storia viene ricostruita con tecniche che nulla hanno da invidiare a quelle in uso presso la polizia scientifica, e ci trasferiamo poi in Inghilterra per incontrare “Cheddar Man”, un Sapiens con la pelle scura, capelli neri e riccioluti, e occhi azzurri, vissuto 10 mila anni fa.

Attraverso queste storie individuali, Barbujani non solo ci offre una panoramica affascinante della nostra storia, ma utilizza anche queste testimonianze per promuovere una lotta instancabile contro il razzismo. Ci si rende conto che questi antichi parenti non erano “anelli mancanti” o esseri umani incompleti nella nostra evoluzione, ma individui perfettamente adattati all’ambiente in cui vivevano.

Le immagini presenti nel libro sono frutto del lavoro di eccellenti artisti che, con estrema meticolosità, realizzano una replica fedele. Volto e corpo vengono modellati utilizzando metodi simili a quelli delle scienze forensi, mentre la struttura ossea viene accuratamente rivestita con una replica dettagliata dei nostri tessuti. Peli e capelli vengono inseriti con precisione, e il tocco finale è dato dagli occhi, incredibilmente realistici grazie alla paleogenomica, disciplina che ci consente di conoscere con precisione il colore della pelle, dei capelli e degli occhi di un individuo del passato. Un dettaglio particolare è la sclera perfettamente bianca, un tratto che si è rivelato importante per la nostra socializzazione, poiché aumenta le capacità espressive dei nostri occhi.

Le tecniche isotopiche forniscono preziosi indizi sullo stile di vita dei nostri antenati. Grazie alla conoscenza dell’ambiente e del clima durante le varie ere glaciali e interglaciali, possiamo dedurre i loro spostamenti, la loro dieta e il loro impatto sull’ambiente circostante. Attraverso l’analisi dei denti, vere e proprie “scatole nere” della vita, possiamo determinare quando raggiungevano l’età dello sviluppo e identificare eventuali segni di sofferenze fetali. La paleoantropologia ci consente di sviluppare modelli sull’evoluzione biologica e l’archeologia sull’evoluzione culturale, includendo lo studio di strumenti litici, arte rupestre e altri manufatti materiali.

Ma il contributo più significativo a questi studi proviene dalla paleogenomica, che sfrutta nuove tecniche di sequenziamento del DNA e l’intelligenza artificiale per analizzare enormi insiemi di dati genetici. Il confronto del nostro genoma con quello dei Neanderthal e dei Denisoviani non solo svela la miscelazione tra diverse specie umane, ma rivela anche effetti direttamente rilevanti per noi. I frammenti di DNA ereditati dai Neanderthal sono associati, tra le altre cose, alla predisposizione per il diabete, la cirrosi epatica, le dipendenze e i sintomi più gravi del Covid-19. In passato, ci sono stati anche effetti positivi che hanno accelerato l’adattamento dei nostri antenati agli ambienti glaciali dell’Eurasia, ma oggi sembrano avere impatti controproducenti in un mondo caratterizzato da minori rischi di sopravvivenza nell’ambiente naturale e da maggiori rischi legati alla socialità e a uno stile di vita più sedentario.

La genetica apre la porta allo studio delle antiche migrazioni degli Homo sapiens e all’emergere di società sempre più complesse e gerarchiche, particolarmente evidente con l’abbondanza di risorse a partire da circa 10 mila anni fa. Le radici della straordinaria crescita demografica degli ultimi secoli potrebbero affondare nel tardo Pleistocene, quando iniziarono a emergere notevoli differenze genetiche, anatomiche, neurali, fisiologiche e comportamentali tra noi e le altre specie umane ormai estinte.

La peculiarità della nostra testa, caratterizzata dalla rotondità causata dal rigonfiamento della corteccia parietale, si correla, ad esempio, con le componenti cerebrali coinvolte nell’integrazione visiva dello spazio e nel coordinamento tra il cervello, il corpo, gli strumenti e l’ambiente, favorendo una maggiore socialità e una migliore integrazione con l’ambiente, dando vita a nuove capacità cognitive come la capacità di contare, sviluppando una memoria prospettica, generando il pensiero simbolico e persino producendo musica. Gli Homo sapiens hanno anche sviluppato tratti anatomici più aggraziati, un aspetto meno minaccioso, simile a quello femminile, e il mantenimento di comportamenti giovanili in età adulta, caratteristiche tipiche della cosiddetta sindrome da autodomesticazione, osservata anche in alcuni animali, in cui l’aggressività diminuisce all’interno del gruppo ma aumenta verso l’esterno.

In conclusione, il cantiere della costruzione di Homo sapiens ha una storia lunga e tutt’ora aperta. L’essenza dell’umano è in costante evoluzione. Questo processo circolare tra biologia e cultura coinvolge cervello, corpo, oggetti, strumenti, ambiente naturale e sociale. Dall’analisi dei singoli individui, è necessario procedere all’analisi delle società che essi hanno formato e voluto. Se questo è stato il segreto del nostro successo, potrebbe anche essere la causa del nostro possibile declino. Siamo ora tutti vincolati alle condizioni di sopravvivenza imposte dal nostro organismo sociale, un corpo collettivo che recentemente ha assunto proporzioni eccessive, trasformandosi in un superorganismo sempre più vorace di energia, incline alla bellicosità, al conflitto e all’invasività, con effetti devastanti sul nostro pianeta.

Nonostante il nostro impatto individuale possa sembrare limitato, potremmo comunque cercare di instaurare connessioni umane. Guardarci negli occhi e utilizzare i nostri neuroni specchio per generare empatia e cooperazione, anziché per dividere in tribù perpetuamente contrapposte, potrebbe essere un passo importante verso una convivenza più armoniosa.

Conoscere le loro storie, guardarli negli occhi proprio come noi guardiamo negli occhi i nostri nonni e talvolta i bisnonni in vecchie fotografie di famiglia, forse potremmo capire meglio che nonostante tanti anni, migliaia o milioni di anni, ci separino da loro nel tempo, in un certo senso noi siamo loro.

L’autore presenta il suo libro

Il video riporta integralmente l’intervista che l’autore ha rilasciato al giornalista Giorgio Zanchini in una puntata del programma di RaiTre “Quante Storie”