a cura di Giacomo Milazzo
Recensione
Nel 1856, nasce la paleontologia umana, la paleoantropologia, col ritrovamento di un teschio nella valle di Neander (valle si dice ‘tal’ in tedesco, da qui Neandertal, o Neanderthal, con o senza h va bene uguale).
A metà Ottocento non era per nulla accettato che fossero esistite forme umane diverse dalla presente, tanto è vero che in effetti fossili simili erano già stati trovati, a Gibilterra e in Belgio, senza che nessuno avesse capito di cosa potesse trattarsi. Persino alcuni evoluzionisti d’accordo con le idee che da lì a poco Darwin avrebbe messo nero su bianco, erano convinti che l’uomo avesse seguito strade diverse da quelle degli altri animali.
Ci furono persino ipotesi che questi scheletri fossero appartenuti ad individui affetti da cretinismo, o ad una certa popolazione dell’Europa dell’Est, o addirittura alle vittime di terribili emicranie che a forza di massaggiarsi la fronte, avessero sviluppato una formazione ossea spessa un centimetro sopra gli occhi (…).
Ma scartate queste ipotesi ciò che appariva, per quanto improbabile, era la verità: impossibile negare che anche l’umanità si sia evoluta, passando attraverso forme differenti. E quanto più si evolveva tanto più dava segni di irrequietezza.
Il tema principale del testo è evidente e corredato dai risultati delle più recenti ricerche in ambito genetico, paleontologico, archeologico e persino linguistico: l’evoluzione dell’uomo vista con un occhio speciale alle migrazioni e alla loro importanza. Ogni capitolo è accompagnato da un prologo di un personaggio di fantasia, Esumim, che ha vissuto in prima persona gli eventi che verranno poi affrontati, scientificamente, nel corso del capitolo stesso. E’ l’immaginario testimone di un viaggio iniziato sei milioni di anni fa, il cui primo passo fu quello di scendere dagli alberi, dando avvio alla lunga catena di migrazioni attraverso la quale i nostri antenati hanno colonizzato il pianeta. Quante umanità diverse – dagli Austrolopiteci a Neandertal, a Homo sapiens – si sono succedute e incrociate sulla Terra? Quali percorsi hanno seguito, dalla loro prima uscita dall’Africa fino alla diffusione in tutto il pianeta? Nella genetica, la guida per ricostruire una diaspora mai conclusa, espressione del nostro ancestrale nomadismo.
La tendenza a spostarsi e a cercare migliori condizioni di vita ci accompagna da sei milioni di anni. Oggi si fa un gran parlare di radici e dei diritti che deriverebbe dall’avere in un posto e non nell’altro, ma basta abbassare gli occhi, come suggerisce un antropologo, per rendersi conto che in fondo alle gambe non abbiamo radici, ma piedi: piedi che servono per andare in giro e di cui ci serviamo dall’alba dei tempi per il colossale viaggio in cui l’umanità è impegnata fin da quando ha mosso i primi, timidi passi sul suolo, con arti ancora poco adatti a camminare, con un cervello piccolo e poca forza muscolare, ma spinta a procedere da due caratteristiche umane già allora pienamente sviluppate.
Erano quelle stesse che ci hanno permesso di progredire nelle tecniche e nelle arti; di esplorare questo pianeta e cominciare a esplorarne altri; di ficcarci nei guai e poi di uscirne; di comporre sinfonie romanzi, costruire piramidi, pagode, cattedrali, scuole, ospedali e parlamenti; allungare la vita umana e migliorarne la qualità; arrivare a conoscere luoghi, persone culture diverse, imparando e trasmettendo qualcosa di noi a ogni scambio. Due caratteristiche umane di cui anche gli autori sono portatori sani: irrequietezza e curiosità.
E la storia delle migrazioni che hanno condotto l’umanità ad essere onnipresente sul pianeta assume oggi un’importanza che va al di là delle considerazioni e delle scoperte che la genetica molecolare ci ha messo di fronte, la non esistenza delle razze umane, la pressoché totale impossibilità di trovare un qualsiasi individuo che non abbia tracce, nel suo DNA, di qualunque altra popolazione ancestrale. Perché è sul tema delle migrazioni e della loro accettazione che si gioca una delle partite politiche più importanti dei nostri tempi: finché il divario delle condizioni di vita tra paesi ricchi e paesi poveri sarà così grande non c’è alcuna possibilità che il flusso migratorio si arresti.
Molto interessante infine nel testo, la presenza di un capitolo dedicato alle ricerche sui parallelismi tra l’evoluzione biologica e quella linguistica, nate soprattutto dall’unicità della caratteristica, il linguaggio, in Homo sapiens e forse, a detta di qualcuno, persino già nei Neardertal.
Selezione dai capitoli
- In principio. Una breve ma esaustiva introduzione storica sullo sviluppo dell’evoluzionismo e sulla sua affermazione, tutto sommato recente ed ancora da molti incompresa o addirittura non accettata. Da Linneo a Darwin, passando per le ricerche sull’età della Terra, e le prime scoperte paleoantropologiche.
- Il primo passo. Come scrivono gli autori, il primo passo fu quello di scendere dagli alberi, a volte rovinosamente, come sembra sia accaduto, e qui raccontato, all’australopiteca più famosa del mondo: Lucy. Ripercorrendo le tappe principali dei primi milioni di anni a partire dai circa sei che ci separano da scimpanzè e dalla loro forma pigmea, i bonobo, il tema principale è ciò che ci ha reso umani. A cominciare dal bipedismo, dai suoi innumerevoli vantaggi ma anche gli svantaggi, in linea con le soluzioni pasticciate che spesso produce l’evoluzione; lo sviluppo del cervello, la creazione di attrezzi specifici, strumenti usati per produrne altri, esclusiva umana.
- Indietro nell’album di famiglia. Il capitolo ripercorre la storia del genere Homo, i primi ominini, a partire dalle prime creature che hanno intrapreso questo accidentale cammino, raggruppati nei generi Australopithecus, Paranthropus e Homo illustrando come nomi e classificazioni siano cambiati e forse cambieranno ancora nel tempo e di come, già da qualche decennio, le tecniche di analisi basate sullo studio del DNA antico, stiano dando risultati straordinari.
- Fuori dall’Africa, uno. Circa due milioni di anni fa inizia la straordinaria avventura che ha portato le prime forme umane fuori da quel che era, innegabilmente e come qualcuno l’ha definita, la culla dell’umanità: l’Africa. Fossili di forme di molto precedenti Homo sapiens, di 1,8 milioni di anni fa ritrovati in Georgia, non a caso nominato Homo georgicus, e se qualcuno allora era arrivato ai confini tra Europa ed Asia, altri più tardi, 1,5 milioni di anni fa, arrivarono in Cina, e 500.000 anni dopo, fino a Giava, in Indonesia (Homo erectus). E non a nuoto o su barche, perché allora il livello del mare era talmente più basso, da aver permesso la comparsa di ponti di terraferma tra quel che oggi vediamo come isole. E a partire da 800.000 anni fa troviamo forme arcaiche in Europa: Spagna, Grecia, Italia, Germania e non solo lo testimoniano con i loro resti fossili. E non siamo ancora noi, ma nostri predecessori (Homo heidelbergensis). Ma già a partire da 300.000 anni fa si ritrovano, un po’ in tutto il continente ed anche in Asia occidentale, tracce di un’unica forma umana, il ben noto Homo neandertalensis, i Neardertal, con un cervello da ben 1.500 centimetri cubici, come i Sapiens, ed a volte anche di più! E che si spinse molto ad Est, fino in Uzbekistan e ai Monti Altai nella Siberia centrale. A dimostrare che sia i Neardertal che gli altri, spesso convivendo in zone limitrofe, migravano esattamente come noi avremmo fatto da lì a poco, e per gli stessi motivi. Ed a partire da 100.000 anni fa, ultime arrivate della lunga migrazione iniziata centinaia di migliaia di anni prima, appaiono altre due forme di ominini: nell’isola di Flores, in Indonesia, una forma pigmea ma decisamente umana (Homo floresiensis) e nella grotta di Denisova in Siberia (Homo di Denisova, i cui resti in realtà sono di una femmina). Ed è accertato ormai che questo ominide condivise il territorio sia con la nostra specie, Homo sapiens, sia con i Neandertal. I contatti tra le diverse specie furono consistenti e con incroci, tanto che una piccola percentuale del genoma delle attuali popolazioni umane asiatiche è di origine denisoviana. Si inizia a delineare un quadro di più migrazioni, verso destinazioni diverse, a volte pressoché coeve o ravvicinate nel tempo.
- Fuori dall’Africa, due. Il capitolo analizza, sempre con ricchezza di dettagli e fonti, come le condizioni di vita dure e precarie dei cacciatori-raccoglitori, e spesso saprofagi, che caratterizzavano i gruppi umani, costringevano a continui spostamenti, come nella precedente ondata migratoria, una spinta naturale ma avvenuta senza direzioni precise, in maniera irregolare, non sono migrazioni con una meta precisa, seguendo la fonte di sostentamento o a volte a causa del sovraffollamento di una regione causato dalla presenza di altri gruppi. Si iniziano a intensificare i ritrovamenti al di fuori dell’Africa su direttrici diverse, che coinvolgono percorsi diversi, più verso nord, una nuova rotta settentrionale. Resti di circa 100-120.000 anni fa compaiono ad esempio dalle parti di Haifa, in Israele. Il capitolo mette inoltre in evidenza come sia relativamente più semplice ottenere informazioni dalla genetica, per mezzo dell’analisi del DNA, con una breve digressione esplicativa, incrociando dati molecolari con dati archeologici e paleoantropologici che spesso forniscono risultati sovrapponibili. E in questa seconda ondata migratoria c’è Homo sapiens, ci siamo noi, apparsi in Africa tra 200.000 e 300.000 anni fa. Che con un’espansione al di fuori del continente africano ci ha visto arrivare in tempi relativamente brevi, fin nelle più remote destinazioni: 40.000 anni fa eravamo già in Australia. Ed è sempre la genetica a dirci che le migrazioni avvenivano per piccoli gruppi.
- Incontri ravvicinati fra strani tipi. Il capitolo è dedicato all’illustrazione di ciò che la genetica molecolare abbia dato in termini di contributi utili a ricostruire la storia dell’umanità, dei suoi flussi migratori, delle tracce degli antenati per quanto diluite possano essere: il tutto analizzando e campionando soltanto l’uno per mille del nostro DNA che rappresenta quando di diverso possa esserci tra ognuno di noi, visto che condividiamo con esattezza il restante 99,9 percento! Particolare attenzione viene data al lavoro di Svante Pääbo e del suo gruppo, un’eccellenza nel campo delle analisi dei DNA antichi e della modellizzazione delle relazioni tra popolazioni umane, attuali o passate che siano. E’ lui che ha contribuito ad esempio più di altri alla formulazione di un modello che attesta che tra noi e i Neandertal ci sia stata una forma di ibridazione, anche se non tutti sono d’accordo, compreso gli autori del libro che, pur non negando che ci siano stati certamente incroci, asseriscono che ci sono aspetti del modello che non convincono. Nel nostro cammino fuori dall’Africa ci sono incontri con forme umane diverse, almeno due, se non tre, ed è il DNA a testimoniarlo.
- L’Estremo Oriente, Melanesia e Polinesia. Il capitolo è dedicato alla storia della migrazione e della colonizzazione ancestrale di queste regioni del pianeta, arricchite dal racconto di come le condizioni geografiche fossero, decine di migliaia di anni fa, completamente diverse, a cominciare dal livello del mare, che in piena era glaciale, era fino a 130 metri più basso che oggi, lasciando emersi territori attraversabili a piedi che collegavano ciò che oggi vediamo come isole separate da vasti bracci di mare, talmente ampi da rendere impossibile vedere da una certa isola altre isole relativamente vicine. Ma successivamente anche via mare! Se per esempio Australia, Tasmania e Nuova Guinea erano collegate tra loro da ponti di terra, quest’unico blocco non lo era con quello suddetto, ma c’erano almeno 90 km di mare aperto. E se dalle poche informazioni che abbiamo appare che le imbarcazioni usate fossero più canoe che qualcosa dotato di vele, appare ancora più stupefacente la conquista dell’Oceania da parte della nostra specie in tempi così remoti. E infine, siccome l’Estremo Oriente servì da base anche per migrazioni da qui verso nord e persino verso ovest, viene dato ampio spazio alla colonizzazione del sud-est asiatico a partire dalla Malesia, persino fino in Madagascar che ospita popolazioni che con l’Africa hanno, o per lo meno avevano, ben poco a che fare!
- Nelle Americhe. Si fa spesso un gran parlare di Cristoforo Colombo e delle sua impresa. Ma Homo sapiens, dall’Alaska al Cile, migliaia di anni prima era già presente sul continente americano, ben prima dell’arrivo delle caravelle, o dei vichinghi, ad esser giusti. E gli uomini moderni ci sono arrivati a piedi, percorrendo sentieri di ghiaccio oggi scomparsi e sopravvivendo a climi che definire rigidi è poca cosa. Una manciata di migranti è riuscita in un’impresa colossale, altro che Colombo! Il capitolo è dedicato al racconto di questa impresa straordinaria, a come Alaska e Siberia fossero collegate da terra emersa, la Beringia, di come i primi migranti dovettero fermarsi ed attendere che due gigantesche calotte glaciali che ricoprivano completamente Alaska e Canada, iniziassero a fondere, dando luogo a due corridoi diversi, uno meridionale, lungo la costa pacifica e che, passo dopo passo, in poche migliaia di anni, portò l’uomo fino in Patagonia, e l’altro più centrale, verso il Messico. E di come di americani, nativi, ce ne siano stati parecchi in arrivo sempre dalla Siberia. Senza dimenticarsi degli eschimesi.
- Il neolitico. Il capitolo è interamente dedicato al racconto del passaggio, avvenuto in tempi diversi per luoghi diversi, ma più o meno sempre con le stesse modalità, dall’essere popolo di nomadi cacciatori-raccoglitori, a popolo di agricoltori, pastori e allevatori, sedentari. La rivoluzione del neolitico, come la chiama qualcuno. Sempre con l’aiuto fondamentale della genetica, spesso a torto snobbato da storici e archeologi, gli autori descrivono come tutto ciò fu punto di partenza per un incremento demografico senza precedenti, inarrestabile: fino al Neolitico la popolazione mondiale non superava i 10 milioni di individui, è con lo sviluppo di agricoltura e allevamento che iniziamo a diventare tanti. Già 5.000 anni fa, all’epoca della prima dinastia egizia, sulla Terra c’erano già 100 milioni di persone, e 250 milioni all’epoca dell’impero romano. Dando inizio anche, come vedrete, all’era degli organismi geneticamente modificati!
- Lingue e geni. Una parentesi gradita e doverosa. Se, come intuì Darwin, potessimo avere una disposizione genealogica perfetta delle popolazioni umane, quanto questa dovrebbe coincidere con la genealogia delle lingue e la loro diversificazione e diffusione? E viceversa. Il capitolo analizza con cura i modelli, le ipotesi, le discussioni e le difficoltà spesso non superabili di quella che Richard Dawkins in un suo libro definì memetica. Trattare le lingue in evoluzione come gli organismi, o per lo meno con modelli analoghi. Ma come vedrete le cose sono molto più complesse, a cominciare dal tipo di classificazione delle lingue su cui ancora non c’è accordo. Ma gli scienziati sono gente testarda, e qualcosa si sta già muovendo nella giusta direzione.
- Altre migrazioni. Sempre grazie ai formidabili miglioramenti delle tecnologie di studio del DNA, negli ultimi anni si stanno completando le descrizioni di un numero crescente di genomi antichi, per metterli in fila e seguire come nel corso di migliaia di anni siano cambiati soprattutto a causa di apporti esterni da parte di altre popolazioni. Il capitolo si dedica all’analisi soprattutto delle popolazioni europee, meglio conosciute anche storicamente, raccontandoci di Etruschi, Longobardi, Micenei, Greci e persino Celti. E qualunque siano i risultati le conseguenze sono le stesse: ogni singola popolazione mostra una certa continuità genealogica, ma nel corso del tempo i contatti con persone provenienti da altre popolazioni sono inevitabili e lasciano il segno, un segno che la genetica riesce a seguire. Gli scambi migratori, soprattutto in tempi recenti, sono sempre avvenuti e nessuna popolazione può definirsi pura, nemmeno gli abitanti di remote valli montane o di isole sperdute. E l’aiuto che la genetica offre a storici ed archeologi, checché ne dicano, è fondamentale. E infine gli autori ci tengono a sottolineare e ribadire che, ça va sans dire, le razze umane non esistono!
Gli autori raccontano
Sul filo conduttore del suo libro Guido Barbujani ci racconta di questo affascinante viaggio dell’umanità fino a ribadire, ancora una volta, la non esistenza delle razze umane.
Più fedele alla trama del libro, il coatore Andrea Brunelli, ci accompagna nella lettura del testo.