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“Siccità. Un paese alla frontiera del clima” di Giulio Boccaletti

a cura di Giacomo Milazzo

Recensione

Leggere questo libro oggi, marzo 2024, ormai prossimi al termine di questo “non inverno”, rende le parole del suo autore quasi profetiche. Ma la scienza non va avanti per profezie, il suo saper prevedere il comportamento di un sistema deriva dalla logica e dall’attenersi scrupolosamente alle osservazioni. E’ questo quanto l’autore ci offre in questa sua disamina.
Nel marzo del 2022, dopo mesi di temperature elevate e precipitazioni sotto la norma, un carro armato è spuntato dalle secche del Po. Poco più di un anno dopo, i fiumi della Romagna hanno rotto gli argini sommergendo case, aziende e coltivazioni. L’Italia sta affrontando un cambiamento climatico tra i più difficili in Europa. Siccità e ondate di caldo ogni anno più soffocanti si alternano a piogge monsoniche e alluvioni imprevedibili. Non stiamo vivendo una tragica e sfortunata sequenza di eventi catastrofici, ma la statistica di una nuova normalità. Il clima sta cambiando e ci sono scelte importanti da fare. Eppure, il dibattito pubblico e politico sembra concentrarsi su questioni marginali. Il risultato? Poca chiarezza sui problemi raramente produce soluzioni efficaci. Tra i massimi esperti di sicurezza ambientale e risorse naturali, Giulio Boccaletti affronta luci e ombre di una questione urgente e attuale, mostrando patologie, opportunità e complicazioni di un paese alle prese con una transizione fondamentale.

Dopo il grande successo del suo libro precedente (“Acqua. Una biografia”) l’ultima produzione di Giulio Boccaletti, “Siccità. Un paese alla frontiera del clima”, è un libro straordinario che getta luce su una delle sfide più urgenti che l’umanità affronta oggi: la crescente scarsità d’acqua e l’impellente necessità di affrontare questa crisi globale. Con un misto di narrazione avvincente e solide basi scientifiche, l’autore ci guida attraverso un viaggio affascinante nel mondo delle risorse idriche, mostrandoci come il cambiamento climatico, la crescita demografica e la cattiva gestione abbiano portato il pianeta sull’orlo di una catastrofe idrica.

Giulio Boccaletti offre un’analisi chiara e approfondita delle sfide legate all’acqua, ma non si limita solo a identificare i problemi. Propone anche soluzioni innovative e pratiche per affrontare la crisi, suggerendo come governi, aziende e individui possano contribuire a preservare e gestire le risorse idriche in modo sostenibile. La sua visione è basata su dati scientifici solidi e una comprensione approfondita del sistema idrico globale.

La scrittura di Boccaletti è accessibile e coinvolgente, il che rende il libro adatto non solo agli esperti del settore, ma anche al lettore medio interessato a comprendere meglio la questione dell’acqua. Il libro è una lettura imperdibile per chiunque si preoccupi della sostenibilità ambientale e delle sfide globali legate all’acqua.

In conclusione, “Siccità ” di Giulio Boccaletti è un libro informativo e appassionante che spinge il lettore a riflettere sulla cruciale importanza delle risorse idriche e ci incoraggia a prendere azione per preservarle per le future generazioni. È un contributo essenziale alla discussione sulla gestione delle risorse idriche e dovrebbe essere letto da chiunque si interessi all’ambiente e al futuro del nostro pianeta.

La tanto abusata parola cambiamento deve essere rivista in chiave politica. Dobbiamo considerare questo adattamento come una trasformazione economica, coinvolgendo i settori produttivi. La trasformazione del territorio non può più essere gestita come uno sforzo per mantenere invariata la nostra vita realizzando argini più alti o invasi più grandi. Dobbiamo chiederci adesso che tipo di agricoltura vogliamo nel futuro e quale economia è compatibile con i cambiamenti in corso che rappresentano la nuova normalità. Il problema non sta nella ricostruzione ma nella trasformazione per ridurre la propria vulnerabilità e continuare a creare benessere in un mondo che cambia. Ma soprattutto dobbiamo smettere di pensare che il nostro agire sociale sia semplicemente la somma di tante piccole azioni individuali: lo sforzo dev’essere coordinato e collettivo. E per questo serve politica, la capacità di fare sintesi. Occorre partecipare al dibattito pubblico, locale, regionale, nazionale. Votare per programmi che affrontano questi problemi in maniera pratica. Alla fine, l’ambientalismo non è solo e neanche prevalentemente una scelta sui consumi. È un atto civico, una pratica di partecipazione di cittadini che vedono nell’ambiente la propria casa comune.

Un libro che ci serviva. Soprattutto adesso che il governo ha liberato il “Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” (PNACC), tra l’altro oggetto di non poche critiche.

Selezione dai capitoli

Premessa – Da secoli, l’umanità ha cercato di costruirsi una vita prevedibile in un territorio che prevedibile non è: la sicurezza idrica moderna è il prodotto di abitudini, istituzioni e infrastrutture create per tenere sotto controllo un ambiente variabile in funzione delle nostre speranze di crescita e sviluppo. E’ figlia di interventi efficaci ed erede di un modernismo ingegneristico che nel ventesimo secolo ha convertito l’idrologia del paese in idraulica funzionale all’economia industriale firmo e ha lasciato l’acqua un ruolo scenografico. Lo si riduce dalla sorpresa con cui accogliamo siccità e alluvioni quando violano la nostra normalità. Come se ritratto dipinto di un lontano parente, appeso danni al muro, improvvisamente si animasse e cominciasse a muoversi per la cucina.

Capitolo 1. Un rischio incompreso – Ad oggi, in Italia non è che manchi l’apporto d’acqua: ne riceviamo tra 250 e 300 miliardi di metri cubi ogni anno, più o meno come la Gran Bretagna, paese notoriamente piovoso. La differenza tra noi e loro sta nel modo in cui l’acqua attraversa il territorio e nelle diverse economie idriche.

Innanzi tutto, a parità di quantità annua, le variazioni tra regioni sono altissime, e questa disparità tende ad accentuarsi. Le tempistiche di deflusso sono cambiate e cambieranno per minori accumuli nevosi, per scioglimenti anticipati, e quindi potremo avere non scarsità d’acqua in generale, quanto ottenerla quando e dove serve.

Il fatto che più complica un quadro del genere e che l’acqua scorre, e tutti i nostri tentativi di confinarla, di irregimentarla, di asservirla ai nostri bisogni immediati nel tempo e nello spazio, sono comunque effimeri e questi potrebbero essere soggetti alla disponibilità o al controllo da parte di territori diversi da quello in cui le necessità si manifestano. In altre parole: qualsiasi infrastruttura lungo un corso d’acqua è posizionale. Se la siccità colpisce un territorio mentre un altro ha, ipoteticamente ma oculatamente, raccolto gli eccessi in strutture locali opportune, mettere a fattor comune le cose è un problema politico.

Non si tratta di scarsità delle molecole che compongono l’acqua ma dalle mille espressioni che queste assumono sul territorio fino ad avere troppa acqua di un tipo contemporaneamente a scarsità d’acqua d’altro tipo.

Del totale di acqua che cade sul paese tra un terzo e la metà viene intercettato dalla vegetazione prima che possa raccogliersi nei corsi d’acqua e torna in atmosfera per evaporazione diretta o per traspirazione vegetale. Abbiamo dodici milioni di ettari agricoli e tre milioni di pascoli o aree incolte: tutto ricoperto da vegetali, a cui dobbiamo aggiungere qualcosa come undici milioni di ettari di foreste o boschi. Solo considerando l’area agricola qualcosa come 100 miliardi di metri cubi l’anno evaporano o traspirano e tornano in atmosfera. I boschi intercettano circa un terzo di ciò che vi piove sopra: più o meno altri 30-40 miliardi di metri cubi.

Ma l’importante non è quanto piove, ma quando. In Italia andiamo da un minimo di 15 miliardi di metri cubi in luglio a due picchi massimi, in aprile con 27 e da novembre a dicembre, con 33. I vegetali seguono un ritmo adattato con un picco a giugno di evaporazione di circa 25 miliardi di metri cubi che corrispondono a poco più delle precipitazioni medie del periodo.

La siccità non è quindi solo un problema di scarsità ma anche e soprattutto di sfasamento tra bisogni e disponibilità, non quanto, ma quando.

E l’agricoltura sopperisce alla scarsità irrigando con acque che sono raccolte in fiumi e falde, dall’«acqua verde» all’«acqua blu», che raccoglie tra i 100 e i 150 miliardi di metri cubi l’anno che vanno ad alimentare invasi e canali d’irrigazione o alimentano centrali idroelettriche, drenando verso il mare.

L’irrigazione richiede tra i 10 e 30 miliardi di metri cubi l’anno, variabilità enorme che dipende dalle condizioni climatiche. Ma mentre l’acqua che viene dalla falda attraverso un pozzo o dal fiume, e che viene assorbita per fotosintesi o che in parte evapora, è acqua effettivamente consumata, quella che percola e torna in falda o al fiume attraverso il terreno fluirà a valle e potrà diventare la risorsa di un altro. Lo spreco di uno è la fonte di un altro.

E l’acqua potabile è il fattore importante per distinguere tra uso e consumo, acqua che estrae meno di 10 miliardi di metri cubi l’anno dal totale dell’apporto, circa il 3 percento; un volume comparabile all’uso industriale dell’acqua ma tutto sommato entrambi minori perché, anche se a condizioni diverse, gran parte di quest’acqua torna sul territorio.

Tutti questi bisogni in conflitto tra loro, se mal gestiti, illustrano il problema dei fiumi in secca: basta che piova meno o che faccia più caldo e le foreste vanno in sofferenza, aumentando il rischio incendi che generano un feedback negativo sul bilancio gli agricoltori estraggono più acqua dai fiumi per tentare di compensare e, con i volumi visti, basta davvero poco per portare a estrazioni enormi: l’estate del 2022 è emblematica con le ridotte o assenti precipitazioni e le temperature sopra la media.

La siccità è un sintomo dell’incapacità di riorganizzare usi e bisogni ed è questo che preoccupa a fronte di un cambiamento climatico secolare e in accelerazione.

Partendo dal concetto che al mondo non esistono reti di distribuzione che non perdono in Italia, mediamente, si perde dal 30 al 40 percento dell’acqua per danni di vario tipo alle condutture: con variazioni locali ad ampio spettro (ad esempio si perde il 10 percento a Milano e fino al 70 a Frosinone). I tedeschi perdono mediamente il 10, gli inglesi il 20 e gli irlandesi il 50. Il problema del gocciolio della tubatura che riempirebbe appena una lattina in un’ora, che sembra un’inezia, diventa gigantesco se pensate ai milioni di chilometri di tubature esistenti sul territorio.

Il problema è innanzi tutto economico: il costo medio di 1,5 euro al metro cubo in Italia contro i 4,5 della Germania spiega perché gli interventi di manutenzione della rete idrica tedesca siano costanti ed efficaci mentre da noi si investe meno della metà in tal senso, pur ammettendo che l’aspetto morfologico di buona parte del nostro territorio rende complesse queste azioni. Comunque sia, goccia dopo goccia, si perdono soldi: tra 3 e 6 miliardi di euro l’anno, tanto quanto servirebbe per ammodernare gli impianti e sottoporli a manutenzione costante. Ma per risparmiare occorre riparare, e per riparare occorre investire in anticipo. Nessuno si prende l’onere di farlo. Compensare con dissalatori e trattamento di acque reflue? Impossibile, troppo costosa, talmente costosa quell’acqua da mandare in bancarotta l’agricoltore che dovesse servirsene.

Siamo un paese adattato perfettamente a condizioni climatiche…che stanno cambiando. Per questo è fondamentale capire ed accettare che occorre cambiare.

Investire in agronomia affinché vengano coltivate varietà meglio adattate a condizioni di aridità. La soluzione è determinata da cosa si coltiva. Investire nello snellimento della burocrazia affinché sia possibile a qualcuno passare la propria acqua a qualcun altro a fronte di un pagamento; questione complessa e delicata, a rischio di essere monopolizzata dai soliti speculatori, e certamente non può essere lasciata in mano ai singoli agricoltori. Infine, il commercio internazionale, come già fanno da tempo Israele o gli Emirati Arabi, che importano acqua. Dopo tutto l’Italia è già un importatore netto perché ogni anno, sottoforma di prodotti agricoli coltivati all’estero con l’acqua di qualcun altro, importa qualcosa come il doppio del flusso medio del Po, esportando la metà.

Ma non basta. Occorrerebbero più invasi, soprattutto in vista di un minor accumulo nevoso cronico.  Abbiamo invasi per 10 miliardi di metri cubi, la metà del fabbisogno irriguo annuo. In Spagna per 50, due anni e mezzo di bisogni irrigui, gli Stati Uniti hanno stoccaggi per 700 miliardi contro circa 160 di necessità annua, più di 4 anni. E nonostante questo anche questi paesi soffrono problemi di siccità mettendo in ulteriore evidenza la gravità del fenomeno italiano.

Ma ecco che subentrano problemi politici, sociali e territoriali. Aumentare la sicurezza idrica significa intervenire sulla gestione dell’intero territorio, ovvero quasi cento autorità nazionali, regioni, centinaia di comunità montane e oltre ottomila comuni.

Allo scopo di coordinare l’uso dei bacini in maniera ottimale, si è cercato di metter mano alla struttura territoriale delle amministrazioni. Ma la nascita delle Autorità di Bacino non ha cambiato molto l’intrico burocratico e amministrativo con cui confrontarsi in progetti del genere, a scala nazionale, pur con la consapevolezza che l’acqua si sposta muovendosi attraverso i confini. E soprattutto, cosa potrebbe convincere un abitante delle Prealpi a realizzare un invaso la cui eccedenza potrebbe aiutare un produttore di riso del vercellese o del novarese? (l’Italia produce circa la metà del riso europeo e le risaie rappresentano circa il 40 percento dell’uso irriguo italiano). Per rispondere ai bisogni idrici occorre imporre scelte che vanno oltre il territorio in cui si accusa la sofferenza. Ci sono studi che dimostrano che lo scioglimento stagionale dei ghiacciai potrebbe essere usato per riempire, tutti da realizzare, invasi per circa un miliardo di metri cubi. Ma a parte l’esiguità dell’acqua accumulata a fronte delle esigenze ma perché dovrebbero occuparsene territori di comuni e province che non partecipano direttamente ai destini di altre province? Ci sono state polemiche persino in occasione della realizzazione delle vasche di espansione di alcuni fiumi in cui i territori interessati protestavano chiedendo fossero spostate altrove…

Capitolo 2 – Il rovescio della medaglia – L’Italia è attraversata da 200.000 km di canali e protetta da quasi 20.000 km di argini. Nel corso dei secoli il territorio e l’assetto idrografico hanno assunto le caratteristiche che vediamo oggi rendendo il paesaggio quasi esclusivamente artificiale, prodotto delle attività umane. Ci sono innumerevoli esempi storici, fin dall’epoca imperiale romana, che dimostrano come l’ingegno e la perizia dell’ingegneria idraulica fossero tese a trasformare il paesaggio, la rete idrografica, ora per proteggere le città dalle inondazioni, ora per prosciugare paludi, ora per creare canali navigabili. Il paesaggio è stato storicamente ingegnerizzato per rispondere alle esigenze del momento.

Se il potere è il prodotto della costruzione di una volontà comune, come disse Hannah Arendt, occorre prepararsi ad una nuova realtà della gestione del rischio e la gestione dell’acqua che invade il territorio è dinamica perché abbiamo a che fare con un paese che è adattato ad un clima diverso da quello verso cui stiamo andando, in assenza di una visione comune e di collaborazione responsabile.

L’intervento umano, inoltre, risolve molto spesso oggi ciò che domani potrebbe essere un problema. Ci sono innumerevoli esempi storici: dalle opere effettuate sul Delta del Po, la mutata idrografia della Romagna, la trasformazione del territorio facente capo a Milano con la realizzazione di vie d’acqua prima inesistenti. Grazie alla sicurezza idrica creata da quegli interventi sono aumentati produttività agricola e industriale, creando flussi di immigrazione e aumento del benessere, fino al punto che le difese idrauliche hanno permesso alla popolazione di dimenticarsi cose fosse il territorio d’un tempo e il motivo per cui furono realizzate.

Più le difese sono efficaci più i rischi si riducono a quelli estremi ed improbabili, ma sempre possibili. E intere comunità si stabiliscono all’ombra di questi rischi statisticamente minimi, aumentando la loro vulnerabilità. Più siamo bravi a contenere rischi frequenti, più ci esponiamo a un fallimento catastrofico legato ai rischi estremi che eccedono la nostra esperienza. Il cambiamento climatico sta rendendo normale ciò che un tempo era eccezionale.

Quando per decenni si è creduto di essere al sicuro e si assiste invece allo stravolgimento della propria vita a causa di piogge catastrofiche ci si lascia andare a recriminazioni indistinte, come se la cosa fosse responsabilità solo degli amministratori odierni o passati che non hanno curato la gestione dei fossi, dei tombini, degli argini o delle caditoie. Ma non è così semplice. Da tempo sappiamo che i cambiamenti climatici avrebbero prodotto periodi più lunghi di scarsità e precipitazioni sempre più erratiche e intense. Pur riuscendo a prevenire il grosso con bonifiche, infrastrutture, argini e altro gli eventi estremi cambiano natura e ciò che era valido vent’anni fa non lo è più. Né si può usare gli eventi estremi come alibi alle mancanze.

La storia di Milano è emblematica di come l’acqua e la sua gestione sono inseparabili dallo sviluppo economico. Col clima che cambia, e con esso la statistica degli eventi meteorologici, infrastrutture e istituzioni idriche, a gestire la variabilità del clima e dell’acqua, progettate per rispondere alle diverse esigenze storiche, non sono più calibrate per gestire ciò che ci aspetta: per gestire l’adattamento necessario, ricordando che le scelte fatte per risolvere i problemi di ciascuna generazione hanno sempre portato col definire le sfide di quella successiva. E per affrontarle è tassativo sapere dove si sta andando, quale futuro costruire.

La visione comunque dev’essere globale e condivisa…

Capitolo 3 – La nuova frontiera europea – Se la parola chiave è adattamento i cambiamenti dovranno essere radicali, ma senza un piano europeo per aumentarne le capacità non si va molto lontano. L’Unione Europea, il più grande progetto federale contemporaneo, deve realizzare in pratica che l’integrazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici sono inestricabili.

I fenomeni climatici hanno una geografia che trascende la scala individuale, addirittura va oltre quella di nazione. Gli effetti di El Niño non si limitano al Pacifico meridionale dove si manifesta ma modifica in modo statisticamente significativo il monsone indiano, le piogge del Corno d’Africa, quelle degli stati sudoccidentali degli USA. Occorre affrontare le espressioni del clima terrestre con un’organizzazione sociale senza precedenti, su scala planetaria. Non bastano da sole le azioni degli enti che cercano un governo, che forniscono indirizzi o danno indicazioni, come ad esempio l’UNEP (UN Environment Programme) o la più nota UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), ma vanno coinvolte anche organizzazioni come il WTO (World Trade Organization). La siccità che nel 2010 colpì la Cina, che reagì facendo scorta di cereali, ebbe una ricaduta economica sul mondo intero perché i prezzi quadruplicarono in breve tempo, con effetti globali a danno soprattutto dei paesi più poveri.

Ma non va dimenticato che esiste uno spettro continuo su cui si declinano i cambiamenti climatici, dalle scale globali a quelle nazionali e locali. E noi ci siamo dentro.

Le ricerche di IPCC (The Intergovernmental Panel on Climate Change) hanno dimostrato ampiamente che l’aera mediterranea è estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici perché saranno più pesanti che altrove. Un hotspot. L’Italia è il cuore del Mediterraneo. Se i paesi che si affacciano sul Mediterraneo risentiranno più di quelli del nord Europa dei cambiamenti climatici, Italia e Grecia ne soffriranno ancora di più, e, per restare da noi, le regioni del sud più che quelle del nord. Ma il fenomeno interessa l’Europa intera, comunitaria o no. Le ricadute andranno ad intaccare le economie di tutti. Infrastrutture e istituzioni sono strumenti che convertono il clima reale, principalmente idrico, in condizioni operative imprevedibili.

La siccità e le inondazioni che investono ormai periodicamente l’Europa dimostrano che sta succedendo qualcosa che impone di rivisitare la nostra relazione continentale con il paesaggio. Non siamo certamente al collasso ma i rischi legati al clima fisico hanno creato un’esperienza collettiva.

Nel bilancio della UE e nel piano NextGenEU non si vede purtroppo traccia concreta di un intervento lucido e disciplinato sull’adattamento del continente ai cambiamenti in corso. Va bene focalizzarsi sulla transizione energetica e sulla digitalizzazione ma occorre anche un approccio sistematico all’adattamento, visto che l’Europa si sta scaldando più in fretta del resto dell’emisfero boreale e la sua parte meridionale più in fretta del resto del continente.

Non si è, nonostante le evidenze, riusciti a spiegare e trasmettere il messaggio che i cambiamenti climatici ci costringono non solo a limitare i rischi, ma soprattutto a ripensare le attività produttive, l’urbanizzazione e la gestione del territorio di un parte importante del continente. La debolezza politica dei paesi dell’Europa del Sud è non solo causa della mancata visione economica e politica ma soprattutto mancanza di visione politica comune per l’intera UE.

L’ambiente è sempre stato al cuore del progetto europeo: la Carta europea dei diritti fondamentali dichiara che: «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.»

In un clima che cambia l’unione deve uscire dall’ambiguità e abbracciare il proprio ruolo di una nuova federazione modello, un’unione politica forgiata per essere adatta alla frontiera del cambiamento climatico: l’Italia è il cuore di questa frontiera, di fronte ad una sfida epocale. Il clima sta cambiando e la Repubblica italiana deve tutelare il paesaggio produttivo per mitigare la diminuita disponibilità di risorse: le istituzioni dovranno fare delle scelte che la cittadinanza dovrà giudicare.

Le iniziative individuali sono le benvenute e vanno incoraggiate ma la domanda fondamentale che ognuno di noi deve porsi è questa: cosa vogliamo vedere quando guardiamo fuori dalla finestra? La nostra responsabilità di cittadini è avere un’opinione sull’aspetto che dovrà avere il nostro paesaggio.

Capitolo 4. Il grande fiume virtuale – Quando il clima cambia il paesaggio si trasforma. E gli esseri umani non sono un altro da sé rispetto al paesaggio, all’ecosistema, ne sono parte, trasformando quindi noi stessi. L’agricoltura è di gran lunga la leva dominante nell’uso delle risorse e con esse, dell’acqua. Lo sapevano già perfettamente al tempo dei romani tanto che già allora qualsiasi visione agricola implicava una teoria delle società, un’identità. Non è la grande muraglia cinese il  manufatto che più di ogni altra cosa si vede dallo spazio, allontanandosi anche soltanto fino alla Luna non saremmo in grado di vederlo, mentre da lì sarebbe sufficiente un binocolo per osservare quanto i territori agricoli possano cambiare l’aspetto del paesaggio. Già nel primo secolo pev, opere come le georgiche di Virgilio o gli scritti Di Marco Terenzio Varrone servivano ad indicare un’interpretazione moralizzante del territorio agrario, descrivendo un paesaggio agricolo che era, in pratica, tutt’altro che idilliaco. Dominavano vasti possedimenti, proprietari terrieri assenteisti è una produzione destinata pressoché esclusivamente al commercio, con lavoratori agricoli spesso in condizioni di quasi totale schiavitù.

Negli anni Ottanta il geografo Joe Anthony Allan usò per la prima volta l’aggettivo «virtuale» associato all’acqua. Un grande fiume virtuale.

L’agricoltura è la principale espressione dell’ecosistema umano, lo strumento di trasformazione del territorio dal neolitico in poi. L’agricoltura nella sua espressione di gestione del territorio esprime la sovranità di una nazione e, memori delle tragedie della seconda guerra mondiale le scelte comunitarie di evolvere oggi il 30% del bilancio (era oltre il 60 negli anni 80), Ad un settore che genera soltanto l’uno percento del PIL europeo, esprime bene la volontà di garantire che persone ed attività agricole presidino il paesaggio di un continente storicamente frammentato e con una tendenza sconcertante a generare aspiranti imperatori.

Un grande fiume virtuale scorre attorno al mondo. E scorre ovunque l’acqua alimenti l’agricoltura incorporata nei suoi prodotti, utilizzando volumi di vari ordini di grandezza superiori a quello del prodotto stesso punto ma questi volumi non informano sulla sostenibilità ne è detto che alti volumi siano insostenibili (esempio del caffè). Il fiume virtuale lega alla produzione qui al consumo altrove e ciò dà potere. Anche se il legame col territorio in Italia è un valore fortemente identitario e l’immaginario agricolo del paese sia quasi un archetipo, condiviso a livello mondiale ciò non impedisce di partecipare al grande commercio internazionale di acqua virtuale siamo importatori netti: ogni anno attingiamo circa 50 miliardi di metri cubi dal fiume virtuale, più del doppio di quanto occorre per irrigare. Siamo parte di una relazione che va ben oltre i confini nazionali, la maggior parte degli scambi e con i paesi europei, e quindi storia continentale. Il fiume virtuale ha radici nel lontanissimo passato, dalle civiltà mesopotamiche che videro città crescere lungo i fiumi fino a fondersi o scontrarsi e avvicinandosi, con scambi con paesi lontani in area mediterranea. Il grande impero coloniale inglese viaggiava sull’acqua, la cui gestione serviva anche a presidiare il territorio contro i rischi di ingerenze esterni (Russia, Afghanistan, Indo)

Capitolo 5. Una questione di legittimità – Il cambiamento climatico va affrontato con una sfida relativa alla gestione del paese, che va spiegata ai cittadini ciò che oggi definiamo emergenza rappresenta qualcosa che sarà molto più comune in futuro.

Il dibattito odierno sbloccato su posizioni pressoché dogma dogmatiche e sterili, ognuno ha a suo modo inutile da una parte c’è chi dice che l’agire deve avvenire solo in risposta ad una catastrofe climatica, posizione stupida perché quando e se coloro che la sostengono avranno avuto ragione sarà troppo tardi per agire d’altra parte gli oppositori più che far finta di nulla non esprimono, accusando di catastrofismo i crimini sia chiaro che anche se possiamo discutere sull’utilità, soprattutto politica, di una narrazione catastrofista, non possiamo negare che se non verrà posto un freno o un limite alle emissioni di gas serra i ghiacci dell’artico e della Groenlandia si scioglieranno, e il conseguente innalzamento del livello del mare allargherà la Pianura Padana fino a Piacenza.

La scienza non deve legittimare le scelte politiche, perché la tecnologia, sua derivazione, è fonte di potere; ma la politica al tempo stesso deve innanzitutto fare in modo che il linguaggio scientifico sia reso accessibile alla cittadinanza, sia capito in modo che questa possa sostenere e legittimare le scelte politiche. Il linguaggio deve essere accessibile affinché le scelte condivise siano sottoposte al vaglio. I risultati scientifici sono comunque chiari: il clima cambierà. Resta da capire quanto. E va ulteriormente ribadito che questi risultati non derivano da domande poste da ambientalisti in cerca di conferme alle loro tesi particolari ma derivano da interrogativi che nascono quando si cercava di capire come funziona il sistema, senza scopi politici reconditi. Resta comunque da approfondire come veicolare questi risultati al grande pubblico, in un’epoca di diffusione di false notizie, perlopiù realizzate strumentalmente, e in un’epoca di incremento del disinteresse e dell’ignoranza generalizzata. La climatologia ha già fatto la sua parte, occorrono adesso scelte che non siano solo basate su principi di precauzione, notoriamente inutili in questi casi perché non indicano una strada univoca: scelte determinate soprattutto adesso che va di moda una politica basata su principi di precauzione.

Si deve mobilitare la responsabilità individuale come accadeva nei primi anni 90 durante i quali le pressioni della comunità internazionale spingevano, a fronte della paura dell’aumento di dimensioni del cosiddetto buco dell’ozono, affinché fossero ridotte o eliminate le emissioni di cfc.

I cambiamenti sono già in atto, vanno gestiti.

Un’ulteriore complicazione deriva dall’aumento della distanza tra i contenuti scientifici e la politica. E ciò si aggrava alla luce delle fratture geopolitiche del XXI secolo. Le istituzioni multilaterali ne sono minacciate, e con esse la comunità scientifica internazionale, aumentando il rischio da una parte che la condivisione della conoscenza vada a ridurre le capacità di azione delle comunità più deboli o che l’accentramento di questa nelle mani dei paesi più ricchi, possa creare dei monopoli di potere pericolosi. Si pensi ad esempio proprio alla climatologia, che si avvale ormai di un’infrastruttura computazionale gigantesca, su scala industriale accessibile a pochi paesi e centri di ricerca.

I tecnici dovranno ulteriormente guadagnarsi la fiducia di una cittadinanza abituata a non sapere della loro esistenza e a dubitare della legittimità delle loro opinioni. I problemi potranno essere risolti in maniera condivisa quando saranno chiare a tutti le definizioni tecniche e la gravità della situazione. Se la cittadinanza non percepirà la propria responsabilità nel contribuire a soluzioni condivise tutti gli sforzi saranno vani, ancora di più in un paese come il nostro che ha sempre faticato a fare dell’educazione civica il pilastro centrale della scolarizzazione.

Capitolo 6. Le «guerre per l’acqua» – Metà del territorio terrestre è attraversato da 300 bacini fluviali transnazionali. In Europa Reno e Danubio sono emblematici. Quest’ultimo è considerato il fiume più internazionale del mondo scorrendo entro i confini di dieci paesi: Germania (7,5% del bacino idrografico), Austria (10,3%), Slovacchia (5,8%), Ungheria (11,7%), Croazia (4,5%), Serbia, Bulgaria (5,2%), Romania (28,9%), Moldavia (1,7%) e Ucraina (3,8%). Il suo bacino idrografico comprende parte di altri nove paesi: Italia (0,15%), Polonia (0,09%), Svizzera (0,32%), Repubblica Ceca (2,6%), Slovenia (2,2%), Bosnia ed Erzegovina (4,8%), Montenegro, Macedonia del Nord e Albania (0,04%).

Il carattere transnazionale dell’acqua che scorre pone da sempre il problema della sovranità, delle potenzialità di azione e gestione dei diversi paesi interessati dalle acque dello stesso fiume, dalle potenzialità di conflitto che possono nascere tra paesi che si affacciano a sponde contrapposte quando i fiumi, come da millenni accade, siano usati come confini naturali, o tra paesi a monte ed a valle dei corsi d’acqua.

Molto spesso, con conflitti internazionali che divampano in quasi tutti i continenti e un profondo aumento della frequenza di siccità, la tesi delle «guerre per l’acqua» viene sistematicamente riproposta dalla maggioranza dei media o strumentalmente sbandierata dai politici. In passato si è tentato in modi diversi di gestire il problema della sovranità nazionale in relazione con i corsi d’acqua che attraversano paesi diversi, partendo dalle tesi a favore di una sovranità territoriale assoluta, che assegnerebbe ad un paese il diritto di utilizzare le acque che scorrono sul suo territorio come meglio creda, anche a danno dei paesi che condividono la risorsa idrica. Immaginate in tal caso ad esempio l’enorme potere che avrebbe la Slovenia nei confronti dell’Isonzo.

Fortunatamente il diritto internazionale ritiene pessima questa visione della gestione, soprattutto perché i fiumi, alluvionando, si spostano, creando o distruggendo territorio a seconda dei casi, con conseguenze problematiche per i paesi di confine.

Un’altra visione è quella dell’integrità territoriale assoluta, che imporrebbe vincoli ai paesi a monte per proteggere quelli a valle: anche in questo caso il diritto internazionale non approva questa modalità, di cui un caso famoso è quello dell’Egitto che reclama diritti assoluti sul Nilo a monte, e quindi nei confronti del Sudan per cominciare.

Con queste due tesi entrambe lesive ora dell’una ora dell’altra parte si è andata affermando quella della sovranità territoriale limitata: nel caso l’acqua attraversi o sia essa stessa il confine tra due paesi nessuna delle due parti può vantare diritti assoluti su essa, con un’idea vecchia di secoli visto che già Bartolo da Sassoferrato, giurista del XIV secolo, si chiedeva chi vantasse diritti su terre emerse dopo un’alluvione del Tevere.

Comunque la si veda la cosa genera un equivoco: il concetto delle «guerre per l’acqua» ovvero, l’ipotesi tutta da dimostrare, che limitare la sovranità territoriale generi instabilità, conflittualità, che i problemi idrici siano precursori di quelli della sicurezza. Verrà dimostrato che così non è e anzi, normalmente, la condivisione delle risorse idriche genera stabilità o può essere usata per riportare a condizioni di cooperazione e sicurezza reciproche.

Ovviamente le infrastrutture idriche possono essere un obiettivo militare, rappresentare tasselli strategici utilizzati da sempre, come già fecero i Visigoti ai danni di Roma nel V secolo, sabotando l’afflusso di alcuni acquedotti e addirittura tentando di usarne le canalizzazioni sotterranee per entrare in città, e ancora più recentemente, quando le forze russe hanno interrotto l’approvvigionamento idrico di Mariupol’; e l’acqua può ovviamente anche essere un’arma, come testimoniato dal sabotaggio della diga di Nova Kachovka lo scorso giugno, che ha rilasciato a valle qualcosa come 18 miliardi di metri cubi d’acqua. Azione non certo unica nella storia: l’inondazione dell’Yser nella prima guerra mondiale, la diga sul Dnipro fatta saltare dall’Armata Rossa per fermare l’avanzata tedesca nel 1941, e non ultima la distruzione delle grandi pompe che tenevano asciutto l’Agro Pontino da parte dei tedeschi tra l’ottobre del 1943 e il marzo del 1944, in piena stagione delle piogge.

Inoltre, non va dimenticato che i fiumi hanno sempre rappresentato elementi fondamentali per la tattica militare: dall’essere barriere geografiche rapidamente trasformabili in limiti pressoché invalicabili, facendo saltare o controllandone tutti i ponti, al rappresentare ostacoli di varia natura lungo le cui sponde spesso si svolgono le battaglie più intense (la Marna, la Somme, l’Isonzo, il Piave, il Tagliamento nella Prima Guerra Mondiale; la Mosella, il Reno, il Don o il Volga a Stalingrado nella seconda).

Ma anche se l’idrografia è parte del teatro di guerra ciò non significa che ne sia la causa. Nemmeno quando le condizioni ambientali diventino difficili si è riscontrato un nesso causale diretto con i conflitti. L’impegno militare, una guerra, non sono mai conseguenze dirette di condizioni materiali: ricorrere alla guerra è una scelta che non ha nulla a che fare, per tornare all’acqua, con la scarsità di questa risorsa e giustificare in tal modo un conflitto fornisce ai politici un comodo alibi a coprire le loro responsabilità o la loro incapacità negoziale e impedisce alla comunità di esercitare il loro arbitrio. Ogni volta che si chiama in causa un fattore esterno a limitare la nostra responsabilità, una scusa insomma, il sospetto che sia strumentale deve essere immediato.

Le guerre non si combattono mai solo per l’acqua e anzi, l’acqua non impone conflitti ma addirittura aiuta a mitigarli. Ritornando al Danubio, ed alla sua presenza diretta o indiretta su ben 19 paesi europei, è possibile capire come una situazione idrica complessa spinga più alla cooperazione che al conflitto, quei 300 bacini fluviali che attraversano diversi confini nazionali per metà del territorio della Terra, devono essere visti come altrettanti strumenti di pace, allo scopo di concepire istituzioni valide affinché siano trasformati in strumenti efficaci di diplomazia. Nell’ottica inclusiva del Pontifex romano, il “costruttore di ponti”.

La tesi delle «guerre per l’acqua» nasce da tempi immemori. Una delle più famose è quella che ha visto contrapposte Giordania ed Israele nella gestione del fiume Giordano dove l’acqua giocò sì un ruolo chiave nel conflitto ma non ne fu la causa perché la valle del Giordano è sempre stata arida e, un paradosso solo apparente, la stessa acqua, le condizioni idriche difficili, facilitarono la pace quando l’Egitto, anni dopo, offrì le proprie acque ad Israele allo scopo di trovare un compromesso e favorire la stabilità regionale. Purtroppo non se ne fece nulla.

Questa tesi continuò a prendere corpo, generando un equivoco strumentalizzato soprattutto dai media, quando alla fine degli anni ’80, e poi ancora nel 1995, due egiziani di spicco, Boutros Booutros-Ghali, allora ministro di Saddat e poi Segretario Generale dell’ONU, e Ismail Serageldin, vicepresidente della Banca Mondiale, iniziarono a paventare la possibilità che conflitti futuri sarebbero stati combattuti per l’acqua, ma erano posizioni puramente retoriche o errori, come nel secondo caso, commessi in buona fede nel tentativo di attirare l’attenzione sull’importanza della gestione dell’acqua. Tutti i media internazionali più importanti presero quel Water Wars per oro colato proiettando nel futuro terribili previsioni del tutto ingiustificate: dozzine di studi sono stati compiuti allo scopo e non emerge alcuna evidenza empirica che attribuisca all’acqua la causa diretta di un conflitto. E’ una scorciatoia per trasmettere l’urgenza, come il catastrofismo.

La storia e i fatti dimostrano, anche se con dinamiche complesse, che i problemi transnazionali nella gestione delle risorse idriche, generano più cooperazione e collaborazione che conflitto e ci sono molti esempi di come, nel tempo, pur in presenza di tensioni o stati conflittuali, il governo della risorsa idrica comune non sia stato da questi influenzato.

Con cessare del colonialismo britannico emerse immediatamente come la suddivisione più o meno netta, e artificiosa, del bacino dell’Indo tra Pakistan e India, creasse non pochi problemi avendo lasciato, in pratica, la maggior parte della terra irrigata al Pakistan e le infrastrutture, i rubinetti se si vuole, all’India. Questa cosiddetta «partizione del 1947» scatenò forse la più grande migrazione umana del XX secolo: qualcosa come 15 milioni di persone attraversarono i confini in un verso o nell’altro affiancati da migliaia di vittime causate da operazioni di pulizia etnica. Solo negli anni ’60 si ebbe un trattato, imperfetto ma rispettato, e che ha resistito al divenire di entrambi i paesi potenze nucleari ed ad una serie di conflitti grandi e piccoli.

In Cina sono state costruite centinaia di dighe di piccole dimensioni ed una dozzina di dighe gigantesche nel bacino del Mekong. Ma non c’è stato né ci sono le evidenze per paventare la tesi di un conflitto la cui causa sia l’acqua tra il gigante asiatico e i paesi a valle, Thailandia, Cambogia, Laos e Vietnam. Anzi, è stato dimostrato scientificamente che la regolazione che le dighe del corso superiore offrivano nella gestione del fiume a valle erano un beneficio per tutti. E con l’acqua fluiscono anche altre risorse, anche non materiali, come le competenze tecniche e scientifiche che consentono ad un paese di allargare la propria sfera di influenza, esattamente quel che ad esempio fecero gli Stati Uniti già con Truman nei confronti dei paesi in via di sviluppo.

Tornando al Nilo, la costruzione della gigantesca diga del Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) da parte dell’Etiopia sul Nilo Azzurro, principale affluente del Nilo con ben l’85% del flusso totale che raggiunge l’Egitto, ha ovviamente generato e sta tuttora creando posizioni contrapposte tra i paesi interessati, Sudan compreso, ma non conflitti né preoccupazioni per questi. La strada è sempre quella cooperativa con l’Etiopia che sta dimostrando che una volta riempito il serbatoio, l’impianto idroelettrico sarà un consumatore minimo e il Sudan potrà beneficiare di un flusso più regolare mentre l’Egitto potrà contare sulla diga di Assuan per qualsiasi riduzione temporanea, visto che questa contiene il doppio del flusso annuale del Nilo.

Insomma, l’acqua è troppo importante per essere oggetto di guerra. Non basta per garantire la pace ma, non avendo sostituti, non può non costringere i paesi a cooperare per una gestione comune. La cooperazione è la chiave per la sopravvivenza e, in tempi recentissimi, con la siccità della primavera del 2022, quanto accaduto tra talebani e forse iraniane, laddove il fiume Helmand attraversa il confine tra l’Afghanistan e l’Iran, è emblematico. I talebani hanno reagito ai tentativi, spesso presunti, di scavare nuovi canali, i contadini iraniani, alle prese da anni con problemi di siccità e infrastrutture insufficienti o inadeguate, hanno reagito e protestato per le minacce di interruzione del flusso e, tanto per cominciare, una marea di persone affamate ed assetate ha attraversato il confine, creando ulteriori pressioni sulle autorità iraniane. Il fiume Helmand drena il 40% del territorio afgano ed è una fonte d’acqua per l’Iran. Un trattato c’è, anche se imperfetto, ma mancano istituzioni migliori per cooperare, da ambo le parti.

Il cambiamento climatico porta con sé il deterioramento della sicurezza idrica. Siamo obbligati ed è nell’interesse di tutti, aiutare i paesi a cooperare oltre i confini che gli uomini hanno scelto di tracciare.

Al termine del capitolo viene dedicata un’ampia disamina del conflitto russo-ucraino, ricordando che uno degli elementi di contesa è, ancora una volta, la disponibilità idrica di quelle regioni, contesa da decenni.

Capitolo 7. Il fallimento degli ultimi – Alla fine dell’Età del Bronzo, circa 3500 anni fa, Ugarit era una delle capitali più ricche, grandi e multiculturali del Vicino Oriente, parte di un sistema economico regionale integrato. Poi scomparve. Dimenticata fino alla sua scoperta da parte degli archeologi. Sappiamo che la sua fine avvenne durante un periodo di cambiamento climatico ma la sua scomparsa non fu determinata da quanto le accadeva attorno.

Ugarit, in poco più di un anno soltanto, fu distrutta da popolazioni provenienti dal nord dei Balcani che, a causa dei cambiamenti climatici, avevano visto collassare il regime agropastorale da cui dipendevano. La scia di distruzione che questi «popoli del mare» lasciarono dietro di sé fu vastissima: cominciò in Anatolia, attraversò il Levante e arrivò in Egitto. Queste popolazioni caricarono vettovaglie e famiglie e si mossero in cerca di alternative per la loro sopravvivenza, senza intenzione di tornare indietro. Erano migranti, oggi diremmo forse migranti climatici.

Il rischio più grosso quindi, per le società ricche non è il cambiamento diretto delle proprie condizioni materiali, ma è la risposta indiretta a impatti che si manifestano altrove. Il cambiamento climatico trasforma la realtà dei soggetti più vulnerabili che reagiscono di conseguenza, anche su periodi molto lunghi, a danno dei primi.

Negli anni ’70, su incarico dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro, fu chiesto all’economista indiano Amartya Kumar Sen, Nobel per l’economia nel 1998, di studiare ed esaminare le cause delle carestie. Fu dimostrato che la carestia non è dovuta alla mancanza di cibo, ma alla mancanza di accesso a questo. Non è un fallimento del sistema di produzione del cibo ma la perdita dei diritti sul proprio lavoro, su ciò che si compra o si produce. Ci sono numerosissimi casi che hanno dimostrato che spesso è stato l’aumento del costo del cibo, a parità di produzione, che ha impedito l’accesso e la fruizione di questo da parte delle classi meno abbienti. E il fenomeno è analogo a quello dell’acqua che impedisce, ad esempio, per mancanza di istituzioni adeguate, di ottenere acqua naturalmente disponibile se si realizzassero le infrastrutture necessarie, a costi contenuti e dover ricorrere ad esempio all’acqua in bottiglia o alle autobotti provenienti da chissà dove, a costi enormemente superiori.

Durante la Grande Depressione negli USA questi erano e restarono granaio del mondo, durante le carestie irlandesi del XIX secolo, persino durante quelle provocate da Stalin o da Mao, mentre la gente moriva di fame i paesi colpiti continuavano a produrre, addirittura ad esportare. Ovviamente il collasso della produzione è parte integrante della crisi ma è sempre instabilità o l’incapacità politica di ridistribuzione la causa prima.

Mancanza di accesso al cibo, povertà, carestie, non sono dovute alla crescita demografica incontrollata delle famiglie povere che producono troppe bocche da sfamare, come scriveva Thomas Maltus con un’ottica vittoriana ed aristocratica, anche se in buona fede e sinceramente preoccupato per la sorte dei poveri nel Regno Unito. Ma è la mancanza di interesse da parte dei ceti più abbienti che, così come gli aristocratici contemporanei di Malthus temevano, non hanno alcun interesse a perseguire una crescita economica diffusa, perché il benessere alimenta desideri di emancipazione, di partecipazione, di influenza sulla vita politica ed economica.

E il problema non è nemmeno la sovrappopolazione ma la distribuzione dei diritti di accesso alle risorse. Nel 1990, meno della metà della popolazione della Terra aveva accesso a sistemi di distribuzione idrici centralizzati; oggi questi sistemi raggiungono il 60 percento della popolazione, un successo enorme se si tiene conto che nel frattempo siamo passati da 5,3 a quasi 8 miliardi di persone, anche se, ovviamente, ciò non significa che sia partita una inesorabile marcia verso il progresso e il benessere per tutti.

In un mondo interconnesso, come ampiamente dimostrato dalla pandemia di Covid-19, nessuno è al sicuro finché tutti non lo sono.

Se è chiaro che l’agricoltura è la protagonista assoluta del nostro rapporto col clima, abbiamo già qualcosa come due miliardi di persone che da questa dipendono in condizioni estremamente vulnerabili: un miliardo di persone, poco meno del 20 percento, impiegato stabilmente come forza lavoro mondiale in campo agricolo e un altro miliardo nell’agricoltura di sussistenza. Abbiamo 65 milioni di rifugiati a livello mondiale, ogni giorno 28.000 persone, in fuga da violenze, conflitti e persecuzioni, abbandonano le loro case. Qualcosa come 26 milioni di persone ogni anno, dal 2008, sono state vittime di disastri naturali, soprattutto legati all’acqua, che ne hanno provocato lo sfollamento. E gli impatti subiti dai più vulnerabili si riflettono sulla vita di tutti, da sempre. Le migrazioni degli Unni del IV secolo, causate quasi certamente da cambiamenti climatici, spinsero i Goti verso il limes, il confine romano. La politica di accoglienza dell’Impero funzionò per un po’, ma cause varie condussero Roma a perdere il controllo della situazione e nel giro di un secolo una serie di eventi portarono alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. I migranti climatici europei della fine del XIX secolo, qualcosa come quattro milioni di persone, migrarono verso gli Stati Uniti entrando in conflitto con le classi lavoratrici urbane. Incoraggiati dal governo a spostarsi verso Ovest, le piogge che non vennero associate a pianificazioni agrarie sbagliate prepararono il terreno per il disastro del Dust Bowl, con conseguenze drammatiche per tutto il paese.

Energia idroelettrica e dighe per il controllo dell’acqua, spesso integrate in un’unica infrastruttura, hanno costituito la piattaforma per lo sviluppo e per la modernizzazione di Europa e Stati Uniti per almeno un secolo, attraversando la storia del Novecento. La percezione che ora si ha di questo modello è radicalmente diversa tra paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, o che lo erano fino a non molto tempo fa come Cina ed India tuttora in corsa per continui primati economici.

Quando nacque la “Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici” (UNFCCC), nel 1992, si era già al punto in cui tutto ciò che doveva essere costruito era già realizzato, che esistevano alternative energetiche plausibili se non possibili, si era insomma in un momento, spinti anche dai movimenti ambientalisti, antidighe, al punto che si iniziò persino a smantellarne qualcuna nel nome del ripristino delle condizioni naturali, emblematica è l’epopea della diga sul fiume Elwha, nello stato di Washington. Insomma, i paesi più ricchi, grazie alle alternative esistenti, iniziarono a potersi permettere di seguire percorsi diversi. Un punto di vista dal quale i paesi emergenti o più poveri, dissentono completamente.

Lo stesso anno la Cina diede inizio alla costruzione della gigantesca Diga delle Tre Gole sul Fiume Azzurro; e non fu un caso isolato, continuando a realizzare centinaia di dighe di piccole dimensioni ed una dozzina di dighe gigantesche nel bacino del Mekong. Posizioni fortemente divergenti furono espresse fin dall’inizio dal Brasile e dall’India che mettevano in evidenza come per oltre un secolo Stati Uniti ed Europa avessero beneficiato di infrastrutture che hanno trasformato il territorio ed agito da volano per l’economia, non comprendendo i motivi per cui i paesi meno abbienti non possano fare lo stesso. Nel nome della transizione ecologica e del ripristino degli ecosistemi i paesi ricchi dimenticano, o meglio fingono di farlo, che se tutto questo è avvenuto è perché l’economia globalizzata ha consentito di spostare la produzione industriale verso nazioni con un costo del lavoro più basso e regole ambientali meno restrittive o del tutto assenti.

Le nazioni che ancora devono impegnarsi nel tipo di trasformazione che possa garantire loro la sicurezza idrica, madre di tutte le altre, perché dovrebbero scegliere un percorso diverso da quello seguito dal mondo ricco? Perché dovrebbero seguire le indicazioni di quest’ultimo senza un’evidenza storica di successo, senza ricevere sussidi, persino quando promessi, senza protezione dai rischi imprevisti di un percorso impegnativo? Come minimo le nazioni ricche dovrebbero sostenere i costi dell’innovazione.

L’aiuto e la ridistribuzione nei confronti dei paesi più poveri sono tassativi. Ma disattesi o semplicemente ignorati. Non un solo dollaro dei cento miliardi ogni anno promessi dai paesi ricchi, Italia compresa, nel 2009 è mai arrivato (promessa reiterata nel 2015, nell’accordo di Parigi, al G7 del 2021, alla COP26 dello stesso anno). Si sarebbe trattato di un impegno tutto sommato modesto rispetto alle reali esigenze, ma sarebbe stato già qualcosa, un segnale politico importante. Non si tratta di cinismo politico ma di ottusità: non si capisce che, se i paesi in via di sviluppo non riusciranno a proteggere la propria popolazione dalle conseguenze di un clima che cambia, la catena di eventi che ne segue sarebbe imprevedibile. Dobbiamo concentrarsi sulle esigenze dei più vulnerabili; la storia insegna che la sicurezza delle nazioni più ricche dipende dalle condizioni dei più poveri, dal fatto che abbiano le infrastrutture e le istituzioni necessarie per il loro futuro, ovunque essi vivano.

Se non si aumenta la resilienza di tutti molte più persone si avventureranno verso le coste dei paesi ricchi, incoraggiati da immagini -il pastore del Sahel conduce le greggi come mille anni fa ma adesso ha uno smartphone- di una vita migliore e più sicura.

E’ moralmente indifendibile il non aver onorato le promesse fatte, ma oltre che persino peggiore è stata e sarà una pessima scelta strategica e politica.

Capitolo 8. Cosa significa natura – 

«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.»

Costituzione della Repubblica Italiana, art. 9 (con emendamenti del febbraio 2022)

L’articolo 9 della Costituzione è diventato green. Recependo anche le direttive europee in materia oltre alla tutela del patrimonio artistico e del paesaggio, presenti nell’originale del 1948 a partire dall’8 febbraio 2022 per decisione del Parlamento della Repubblica italiana prevede anche la salvaguardia dell’ambiente, della diversità e degli ecosistemi. La tutela.

E’ la Repubblica a tutelare, noi stessi, investendo anche gli enti locali delle tematiche legate alla gestione del territorio, mediando tra gli interessi o i diritti individuali e i benefici collettivi; considerando che la proprietà privata è la principale istituzione che governa il paesaggio agroforestale comporta innanzi tutto un problema di gestione collettiva vista la frammentazione in un mosaico di proprietà vanno dal demanio ai privati, dalle comunità montane ai monasteri con diritti spesso risalenti al Medioevo. Per coordinare il tutto serve una serie di istituzioni che colleghi chi possiede i terreni che esprimono le funzionalità degli ecosistemi alla miriade di beneficiari che possono pagare per averne un beneficio.

Ma prima ancora di arrivare a definire come esercitare e chi debba farlo la galassia di azioni che sono riassunte nel verbo tutelare va definito cosa tutelare. Cos’è la natura, cosa è naturale?

C’è chi assegna alla natura il diritto di esercitare una sorta di sovranità naturale, dando voce ad un concetto reificato, scientificamente definito ed eticamente identificato, e chi invece ritiene che la natura sia solo un costrutto artificioso e astratto di origine storica e sociale, una costruzione culturale.

Tutto l’ambientalismo moderno che si infervora intorno al tema della protezione della natura spesso dimentica che ciò che sta difendendo è il risultato di profonde trasformazioni del paesaggio nei secoli, fin dal Neolitico, e il conflitto tra le due visioni crea polemiche sul rapporto tra natura e modernità.

Il futuro non può essere immaginato con il limite dell’iconografia fissa del suo paesaggio. I paesaggi sono il prodotto di secoli di mediazione con l’agricoltura e decenni di industrializzazione. Nonostante la presa di posizione della legislazione dei confronti della tutela di ambiente, ecosistemi, biodiversità o specie animali e vegetali resta ancora non ben definito il concetto di natura o naturale. La legittimità nell’esercizio delle norme dipende anche da chi/cosa è valido per essere tutelato.

Riferendoci alle sole terre emerse, il nostro pianeta è ormai quasi completamente antropizzato, cioè trasformato e colonizzato dal genere umano. Se escludiamo gli ambienti più estremi, dalle caverne più profonde alle cime delle montagne, è diventato quasi impossibile trovare un angolo della superficie terrestre che non porti i segni dell’attività umana. Uno studio recente ha concluso che appena il 20% delle terre emerse è libero, privo della cosiddetta impronta ecologica. Dal calcolo è stato escluso quel 10% di superficie terrestre che è ricoperto da ghiacci, dall’Antartide a buona parte della Groenlandia, passando per i ghiacciai che ancora rimangono.

Un’altra percentuale compresa tra il 48 e il 56% è quella occupata dalle aree a bassa influenza umana, quelle cioè dove la nostra attività è presente ma ancora gestibile (per esempio le zone di campagna dove si pratica ancora allevamento e agricoltura di sussistenza). Quel che resta è invece altamente antropizzato. Interessante è anche scoprire la distribuzione di queste aree: la maggior parte di quelle a influenza molto bassa sono zone fredde, aride o a quote molto elevate, mentre solo il 10% di praterie e foreste mostra una scarsa o nulla presenza dell’uomo e questi ultimi, sono i primi in assoluto a dover essere tutelati e su cui si deve agire affinché permangano in questo stato davvero naturale, intendendo in questo caso privo dei segni di antropizzazione, qualunque essi siano.

Il paesaggio italiano nell’immaginario appare bucolico, immobile nella sua idealità fin dai tempi del Petrarca, ma così non è. E’ fortemente antropico, industrializzato, con un’industria manifatturiera, di meccanica di altissima di precisione  e di trasformazione dei materiali di valenza internazionale. La modernità si mimetizza col paesaggio storico e spesso la discussione del territorio si è focalizzata, direi fossilizzata, in maniera sproporzionata sul turismo, nascondendo il presente dietro il passato. Occorre assicurare anche il settore industriale, non certo a scapito dell’ambiente, ma la capacità di immaginare il futuro non può essere astrattamente limitato dall’iconografia del paesaggio, i paesaggi, certamente incantevoli, non vanno penalizzati né si dovrà rinunciare ad essi, ma occorre capire che sono il prodotto della mediazione di cui s’è detto.

Al termine del capitolo viene dedicato ampio spazio al ruolo delle foreste.

Epilogo. Un impegno civile – L’ambientalismo modernamente definito arriva al termine di un percorso tutto sommato breve. Parte dalle idee di Theodore Roosevelt di attuare una sorta di protezione dell’estetica rurale e inizia a concretizzarsi soltanto nel secondo dopoguerra quando il monitoraggio dell’ambiente, il ruolo della scienza nella gestione delle risorse e la crescita di discipline come l’ecologia e la meteorologia portano le scienze ambientali all’attenzione che meritano, persino con una maggiore autorità politica. Il primo vero e proprio manifesto ambientalista si ha nel 1962 con lo splendido libro di Rachel Carson, “Primavera silenziosa”, momento importantissimo dell’ambientalismo moderno e denuncia contro l’inquinamento industriale.
Pochi anni dopo, nel 1968, il “Club di Roma” pone le basi per una vera e propria critica della modernità, andando oltre la denuncia e ponendo le basi affinché la scienza possa avere valore normativo. I rapporti pubblicati allora, con la collaborazione del famosissimo MIT, anche se condivisibili nella diagnosi non convinsero quasi mai nella terapia, focalizzati soprattutto sui limiti dello sviluppo che ricordavano da vicino teorie malthusiane. Certamente col senno di poi, ma è comunque un insegnamento storico, il problema non è nemmeno il sovrappolamento ma la distribuzione dei diritti di accesso alle risorse. Nel 1990, meno della metà della popolazione della Terra aveva accesso a sistemi di distribuzione idrici centralizzati; oggi questi sistemi raggiungono il 60 percento della popolazione, un successo enorme se si tiene conto che nel frattempo siamo passati da 5,3 a quasi 8 miliardi di persone. Ovviamente, ciò non significa che sia partita una inesorabile marcia verso il progresso e il benessere per tutti.
Dalle idee del “Club di Roma” fu breve il passo fino agli estremi del cosiddetto marxismo ecologico che riteneva che «l’espansione estrema del sistema capitalista sia la causa dell’esclusione sociale, della povertà, della guerra e del degrado ambientale attraverso la globalizzazione e l’imperialismo, sotto la supervisione di stati repressivi e strutture transnazionali.», idee nate in Occidente ma che hanno trovato casa nel Partito Comunista Cinese.
Crisi energetica, maggiore attenzione ai problemi ambientali, soprattutto in paesi come Germania e Gran Bretagna che avevano livelli di inquinamento drammatici, ed altri fattori, crearono nei paesi più ricchi un ruolo di profeti di un nuovo modello di sviluppo, complice la deindustrializzazione dell’Occidente a vantaggio dello spostamento della produzione verso la Cina che iniziava ad assumere ruolo di potenza economica ed industriale, grazie anche alle riforme di Deng Xiaoping.
Un nuovo modello di sviluppo, alternativo a quelli pesantemente industriali di Unione Sovietica e Cina, prese forma e controllo a partire da istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e l’ONU. Nel 1972 nacque l’UNEP, United Nations Environment Programme, e la parola ambiente entra di diritto in ambito politico e pochi anni dopo l’idea di sviluppo sostenibile venne codificata mettendo al centro della crescita economica la definizione scientifica del pianeta come casa comune.
Ma è nel 1992, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, che il Summit della Terra delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro pose la scienza a fondamento della pianificazione ambientale, cristallizzando l’idea di biodiversità, concetto e termine nati nel 1988, e la convenzione sui cambiamenti climatici. Il tutto col sottofondo della necessaria cooperazione internazionale.

La biodiversità. Indipendentemente dalla definizione ufficiale “definita come la ricchezza di vita sulla terra: i milioni di piante, animali e microrganismi, i geni che essi contengono, i complessi ecosistemi che essi costituiscono nella biosfera” e ancora non riferita “solo alla forma e alla struttura degli esseri viventi, ma include anche la diversità intesa come abbondanza, distribuzione e interazione tra le diverse componenti del sistema” comprese le parti inorganiche e fisiche, come la misuriamo, come la tuteliamo, quale delle sue componenti senza penalizzare il risultato di quel che è oggi l’ambiente che abbiamo trasformato e che ci consente di sopravvivere pressoché sull’80% delle terre emerse?

Anche il nuovo Art. 9 della Costituzione ha introdotto il termine biodiversità che, spesso in contrasto con l’uso comune, è declinato in moltissimi modi tecnici diversi e i tecnicismi mal si adattano a gestione per obiettivi, azioni efficaci e persino a valutazioni quantitative.

E sono i risultati a parlare: per quanto se ne parli non c’è mai stata una vera convergenza su come misurarla e proteggerla. Pochi risultati e scarsi successi: evidenziati drammaticamente dalla sesta estinzione di massa in corso.

Per tornare a legare il tema dell’acqua, conditio sine qua non per la vita stessa, a quello della biodiversità e del fallimento di misura e protezione possiamo parlare delle acque dolci. Fiumi e bacini sono mal monitorati e quindi i risultati non sono precisi ma alcuni dati parlano chiaro. Le acque dolci occupano solo l’1 percento della superficie, ma ci vive circa il 10 percento delle specie presenti sulla Terra, compresi un terzo dei vertebrati e la metà delle specie di pesci. La situazione è drammatica. Negli ultimi 40 anni gli esseri umani sono triplicati e nello stesso periodo il numero di pesci, anfibi, uccelli, rettili e quant’altro legati a fiumi, laghi e paludi, è crollato dell’80 percento. Un’ecatombe.

Possiamo perfezionare quanto si vuole quell’articolo della Costituzione, portarlo a livello internazionale, ma senza sintesi politica resta solo una dichiarazione d’intenti, e il fatto che sia onorevole non ha alcun senso pratico.

L’ambientalismo è impreparato nell’affrontare il contesto geopolitico cambiato. Le difficoltà dei partiti che mettono l’ecologia e l’emergenza al centro non dipendono da gli elettori che non hanno capito, e perché la qualità dell’offerta è scarsa. Ci si affida all’urgenza come propulsore di qualsiasi soluzione ignorando legittime scelte contrastanti. La definizione scientifica di un problema da solo non aiuta come spendere i soldi. L’ambientalismo moderno si copre con un mantello scientifico che tenta di nascondere i profondi interessi politici. Per quello l’elettorato non lo ha premiato.

La forza dei trattati internazionali, inclusi quelli ambientali, dipende dalla forza morale del consesso multilaterale. Il fatto che la Russia, un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’organo preposto a garantire la sicurezza degli obiettivi statutari, abbia ignorato deliberatamente la sovranità dell’Ucraina, stato membro dell’ONU, invadendola militarmente, occupandone parte del territorio, ha minato profondamente questa forza morale, già debole.

E l’ambientalismo occidentale, già polverizzato in dozzine di correnti, risulta ancor più impreparato di prima, con risposte e atteggiamenti contraddittori per quanto comprensibili, quali quelli della totale assenza di protesta di fronte alla riaccensione delle centrali a carbone a seguito della riduzione dei quantitativi di gas provenienti dalla Russia o persino, della rivalutazione dell’adozione del nucleare da parte di esponenti importanti di una linea di pensiero radicalmente opposta. In un contesto geopolitico profondamente cambiato non si può più sostenere una superiorità morale nella protezione assoluta della natura, senza considerare la natura dei singoli Stati coinvolti in quella protezione.
Più o meno in tutta Europa i partiti di sinistra parlano il linguaggio dei consessi internazionali e sono più attenti alle tematiche ambientali, quelli di destra parlano meno di ambiente e usano termini più funzionali a descrivere sicurezza e controllo. E, paradossalmente, questi ultimi prevalgono nelle comunità rurali.
In Italia è più o meno così. Nonostante la siccità del 2022 la sensibilità dell’elettorato nei confronti dei temi ambientali non è aumentata.
Si dirà che, come spesso capita, che a causa dell’assenza di un adeguato linguaggio di mediazione tra comunità scientifica e popolazione, gli elettori non hanno capito. Tutt’altro. Il problema non è la distrazione degli elettori, soprattutto quelli che vivono su territori fragili, ma è la qualità dell’offerta politica.
Si pone troppo spesso molta enfasi sul valore normativo della scienza, quella che domina nei consessi internazionali, parlando di destini dell’umanità, ma al tempo stesso senza capire che possano essere legittime anche scelte contrastanti. L’urgenza è chiamata in causa come alibi e propulsore di qualsiasi soluzione.
La definizione scientifica di un problema, per quanto accurata, non aiuta da sola a stabilire come spendere i soldi, chi debba fare sacrifici e, soprattutto chi debba decidere.
L’ambientalismo moderno si veste di un mantello scientifico che serve solo a nascondere la natura fortemente politica delle sue soluzioni, e blocca un dibattito onesto e necessario sulle migliaia di implicazioni, non solo locali, che ne derivano.

L’urgenza come scusa ha inoltre creato un grave equivoco: che sia la scienza a guidare l’agire politico nel rapporto tra la società e l’ambiente, lasciando poco spazio alla politica vera, quella discussa con e tra cittadini, che parlano e dove si parla di casa loro.

L’ambientalismo è una riserva di energia politica, il fervore che provoca tra i più giovani lo dimostra. Ma spesso i fronti che ne hanno abbracciato la retorica non sono progressisti bensì hanno dato prova di conservatorismo. Giustizia, progresso, libertà, equità e diritto di realizzazione della persona (Art. 3 della Costituzione) vengono subordinati sic et simpliciter alla tutela dell’ambiente, un ambiente del tutto astratto.

E per questo che gli elettori, più o meno in tutta Europa, non hanno premiato i politici ambientalisti. Il pieno sviluppo della persona umana, ancora inattuato per molti nella nostra società, deve passare da un’idea di crescita sociale ed economica e non sarà possibile vincolare totalmente lo sviluppo del paesaggio, perché esso si renderà necessario e inevitabile a fronte dei cambiamenti climatici, più in Europa che nel resto del mondo, più nell’area mediterranea che nel resto del continente, più in Italia che altrove, più nel Mezzogiorno che nel Triveneto. L’ecologia dovrà essere necessariamente costruita, bilanciando interessi economici, sociali, culturali e, non ultimi, ecologici.

L’ambientalismo vero deve avere il coraggio di descrivere il futuro fisico del paese, la trasformazione del territorio dal quale dipendiamo per tutto: energia, cibo, sicurezza idrica, cultura. E soprattutto che la legittimità delle scelte non sia subordinata alla scienza ma da questa guidata.

L’autore presenta il suo libro

In questo video l’autore racconta il suo libro soffermandosi sui punti salienti ed estraendone i concetti più importanti.

Giulio Boccaletti è saggista, ricercatore onorario alla Smith School di Oxford e Senior Fellow del Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici. Laureato in fisica a Bologna, ha conseguito un dottorato a Princeton. È stato ricercatore all’MIT, socio di McKinsey & Company a New York e Londra, e Chief Strategy Officer di The Nature Conservancy, la più grande organizzazione ambientale al mondo con sede a Washington e operazioni in più di 40 paesi. Si è occupato di sicurezza idrica con governi e istituzioni internazionali. Nel 2014 il World Economic Forum di Davos lo ha nominato Young Global Leader per il suo lavoro sull’acqua, che nel 2020 è stato oggetto del documentario di PBS H2O: The Molecule That Made Us.
Negli ultimi due decenni la sua carriera ha abbracciato il mondo accademico, il settore privato e quello no-profit. Formatosi come fisico presso l’Università di Bologna in Italia, ha conseguito il dottorato in Scienze atmosferiche e oceaniche presso l’Università di Princeton come NASA Earth Systems Science Fellow ed è stato ricercatore presso il Massachusetts Institute of Technology, dove ha lavorato su una gamma di questioni dalla circolazione generale dell’oceano alla teoria della turbolenza.

È entrato in McKinsey & Company, dove è diventato partner, uno dei leader della pratica di sostenibilità e produttività delle risorse dell’azienda e co-fondatore della sua pratica idrica. Ha servito clienti in tutto il settore privato su questioni strategiche e organizzative, e istituzioni internazionali e governi nazionali su sicurezza delle risorse naturali, strategia infrastrutturale e sviluppo economico. Ha lasciato McKinsey per unirsi a The Nature Conservancy, la più grande organizzazione di conservazione ambientale al mondo, supervisionando i suoi programmi idrici in oltre 40 paesi. Nel 2016 è diventato Chief Strategy Officer dell’organizzazione, guidando la trasformazione delle prestazioni per i risultati di un’istituzione di quasi 4.000 persone e 1,5 miliardi di dollari all’anno. È stato membro del Global Agenda Council on Water e del Global Futures Council on Natural Resource Security del World Economic Forum, che lo ha nominato Young Global Leader nel 2014.

Ha lasciato TNC nel 2020 per co-fondare Chloris Geospatial, una società di analisi geospaziale sostenuta da venture capital focalizzata sull’applicazione del telerilevamento e dell’apprendimento automatico alla valutazione delle risorse naturali. Insegna anche un corso sulla Strategia per la Terra presso la Smith School of Enterprise and the Environment, Università di Oxford, ed è il produttore esecutivo di una prossima serie di PBS/BBC Studios sul “futuro della natura”.

“Per battere la siccità bisogna cambiare il modo di vivere”

Intervista all’autore

di Mauro Garofalo
29 dicembre 2023