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“L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica” di Guido Chelazzi

a cura di Giacomo Milazzo

Recensione

«Da quando è stata inventata, negli anni Novanta del secolo scorso, l’etichetta ecological footprint – che Mathis Wakernagel e William E. Rees appiccicarono al loro metodo per calcolare l’effetto ambientale delle attività umane – ha riscosso un grande successo sia tra gli ecologi che presso il pubblico interessato alle questioni ambientali, perché esprime con efficacia e immediatezza l’idea di un pesante calpestìo umano sugli ecosistemi del pianeta per la necessità di estrarne risorse, installarvi le proprie infrastrutture e riversarvi i propri rifiuti.

Che l’impronta ecologica umana non sia ugualmente distribuita nelle varie regioni della Terra e che si stia rapidamente allargando in conseguenza dell’incremento demografico e dello sviluppo tecnologico più recente, è sotto gli occhi di tutti e nessuno può negare che la Rivoluzione industriale prima e il secondo dopoguerra poi abbiano segnato due drammatici momenti di accelerazione della sua crescita. L’incremento dei gas serra conseguente all’utilizzazione dei combustibili fossili e gli effetti che questo ha sull’equilibrio termico del pianeta, l’alterazione degli habitat naturali e lo sfruttamento esasperato delle risorse biotiche, con la conseguente riduzione della biodiversità terrestre e marina, le molte forme di inquinamento dell’aria e delle acque interne e oceaniche, la diffusione di specie aliene a scapito di quelle naturalmente residenti nei biotopi terrestri e marini, sono i principali effetti di una presenza umana che si è fatta troppo ingombrante negli ultimi tre secoli di storia della Terra. Trecento anni sono un nulla in confronto agli oltre quattro miliardi e mezzo di anni dalla formazione del pianeta; un segmento minuscolo dei due milioni e mezzo di anni di presenza umana negli ecosistemi terrestri; un battere di ciglia anche se ci si limita ai duecentomila anni di occupazione della Terra da parte dell’uomo “anatomicamente moderno”.

Gli scienziati aggiungono sempre nuovi dettagli all’elenco delle pressioni che l’attività dell’uomo contemporaneo esercita nei confronti della funzionalità degli ecosistemi e offrono previsioni sugli scenari futuri che questo comporta. L’opinione pubblica fa fatica a orientarsi di fronte a questo incalzare di notizie e previsioni sullo stato di salute del pianeta, oscillando tra incredulità e allarmismo. Quello che dovrebbe essere chiaro a tutti è che, se le cose non cambieranno, le probabilità di un disastro ecologico globale non sono trascurabili. Di fronte a questo rischio la sfida più grande è quella di individuare soluzioni realmente compatibili con le esigenze di una popolazione globale che ha ormai superato i sette miliardi, che pretende di disporre di quantità enormi di energia, di suoli agricoli, di materie prime. Si resiste all’esigenza di introdurre revisioni sostanziali del modello di sviluppo per meri interessi di parte e per la paura di imboccare una drammatica strada di regressione socioeconomica. Ma il non fare, o il fare sbagliato, ci spingeranno comunque e forse più rapidamente verso questo risultato.» (da G. Chelazzi, L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica, Torino, Einaudi, 2013, pp. VII-VIII).

Nonostante i dieci anni trascorsi dalla sua prima pubblicazione, al termine della lettura di questo libro,  ricchissimo di particolari e soprattutto di fatti incontrovertibili, la domanda che ci si pone è questa: esiste davvero un’antitesi tra l’uomo, la sua presenza e il suo impatto ambientale, e la Natura con la enne maiuscola? Natura, naturale, biodiversità, che significato assumono in relazione non poter fare a meno di inserire al suo interno la nostra stessa specie, che iniziando molto presto, fin dagli albori della sua presenza sulla Terra, ha lasciato impronte evidenti della sua presenza e del suo passaggio. Non sappiamo se queste categorie siano davvero così esclusive o inclusive, ma certamente non possono non comprendere che l’aspetto della Terra così com’è, è per lo più giunto fino a noi non nonostante, ma attraverso le nostre stesse trasformazioni. Siamo fuori e contro la natura o fatalmente legati a essa? Distruggeremo il pianeta su cui siamo nati e cresciuti, o avremo la capacità di condurlo verso nuovi e stabili equilibri? Ricostruire l’origine delle dimensioni ecologiche dell’uomo non è soltanto un esercizio intellettuale ma può ispirare la ricerca di soluzioni concrete al problema che siamo riusciti a crearci in duecentomila anni sulla Terra. In una sorta di processo all’umanità, dove imputato e giudice sono la stessa persona, non potendo comunque separare il colpevole dalla vittima, l’Autore ripercorre – in chiave ecologica – le tappe dell’evoluzione e dello sviluppo culturale di Homo sapiens, dal Paleolitico alla svolta della Rivoluzione industriale e oltre, per saldare l’attualità dell’emergenza ambientale alla nostra preistoria. Come è nato l’opportunismo che ci fa vivere nei climi più inospitali e sfruttare le catene trofiche di ecosistemi tanto diversi? Quando abbiamo cominciato a trasformare la flora e a eliminare le faune? Come abbiamo sviluppato la capacità di costruire originali nicchie ecologiche per intrappolarvi noi stessi e le specie che abbiamo scelto di schiavizzare? Quali sono state le prime attività umane a lasciare il segno nell’atmosfera e a modificare il clima? Un viaggio negli straordinari archivi paleoclimatici, paleontologici, archeologici e genetici che la scienza moderna ha aperto, alla ricerca delle prime impronte antropiche sugli ecosistemi del pianeta e delle premesse che ci hanno portato allo sfruttamento insostenibile delle loro risorse, per comprendere come ha avuto origine questa “colpa”.

Ricostruire l’origine delle dimensioni ecologiche dell’uomo non è soltanto un esercizio intellettuale ma può ispirare la ricerca di soluzioni concrete al problema che siamo riusciti a crearci in duecentomila anni sulla Terra.

Un saggio scritto con grande competenza ma poca presunzione, con un linguaggio chiaro, tecnicamente corretto, incisivo. Processa l’imputato uomo, ma anche la difesa esercita ampiamente i suoi diritti. Racconta la storia naturale dell’animale più capace di trasformare a suo vantaggio immediato i territori su cui si sposta con una spinta interna inarrestabile. Non è un libro che solletichi gli ecologisti più oltranzisti, anche se evidenzia l’uso scriteriato che si fa del territorio e delle risorse. Veramente da leggere.

 

Selezione dai capitoli

  1. Clima domestico
    Il libro si apre ripercorrendo la storia climatica del pianeta, soprattutto quaternaria, ed evidenziando a volte come le condizioni climatiche siano state tali da avere in un certo modo un ruolo indiretto nelle pressioni selettive sull’evoluzione del genere umano. L’attenzione è soprattutto sulle ultime grandi otto glaciazioni principali, avvenute nel corso del tardo Pleistocene, a partire da circa 800.000 anni fa, dando particolare attenzione all’analisi dei cosiddetti proxy data e dei vari metodi di indagine moderna che permettono di stabilire il clima del passato, interpolando varie fonti. Dai confronti isotopici di ossigeno o carbonio, l’analisi dei sedimenti, lo studio dei pollini, fino ai carotaggi dei ghiacci. Interessante anche la digressione relativa ai tipi di fotosintesi, ed ai relativi sviluppi vegetali, che sono più o meno sensibili ai cali di temperatura, con risvolti che possono servire a spiegare come l’evoluzione umana sia stata in un certo qual modo guidata dalla riduzione degli ambienti forestali a vantaggio di quelli di boscaglia o savana, o di come il clima da una parte, e prima ancora la tettonica dall’altra, abbiano creato le condizioni paleogeografiche tali da rendere una vasta zona come il Sahara ora un fertile corridoio verso il nord Africa ora una barriera desertica. L’analisi paleoclimatica non può esimersi dal citare riferimenti storici come Milankovic, o le ipotesi, comprovate da fatti, di Heinrich, o ancora il tentativo di relazionare all’attività solare i cambiamenti. La complessità del sistema non lineare di tipo caos-deterministico è evidenziata dalle complesse relazioni tra idrosfera e atmosfera, le correnti oceaniche o i flussi d’aria, la grande variazione geografica e morfologica avvenuta dopo l’apertura della Pangea. Un paragrafo è infine interamente dedicato all’effetto serra ed alle sue cause.
  2. L’ultimogenito
    Il capitolo narra, con dovizia di dettagli e riferimenti, l’affascinante storia dell’evoluzione umana. Vengono messe in evidenza le differenziazioni con le altre specie di primati ed anche con le specie Homo antecedenti/coabitanti ai Sapiens. Quella che un tempo era chiamata “rivoluzione”, attribuendo alle specie euroasiatiche l’acquisizione “improvvisa” di caratteri avanzati viene rivista pezzo per pezzo, e l’argomento sarà approfondito nel VI capitolo: l’archeologia africana dimostra che si è trattato di un lungo processo culturale partito ancor prima di circa 200.000 anni, epoca della comparsa di Homo sapiens. Si illustra come il processo di colonizzazione abbia portato, in tempi tutto sommato brevissimi in senso geologico, ad occupare posti in tutto il mondo. Pur tenendo conto che nei 10 anni trascorsi dalla data della sua pubblicazione sono emersi elementi nuovi atti sia a confutare che a confermare precedenti ipotesi, questo libro offre un quadro dettagliato e quanto di meglio si possa avere sull’argomento.
  3. Impronte in famiglia
    Il terzo capitolo approfondisce la storia più recente, concentrandosi sul complesso rapporto tra i Neanderthal e i Sapiens, oltre che alle specie affini e/o in molti casi coeve, quali ad esempio i Denisoviani, cercando di capire cosa sia accaduto durante il periodo di coabitazione degli stessi ambienti da parte di tre se non addirittura quattro specie Homo diverse, analizzando gli effetti dei complessi rapporti di interferenza e concorrenza. Può darsi che la fine degli altri sia dovuta a molti fattori: i cambiamenti climatici che si sono verificati tra il Pleistocene medio e superiore, improvvise catastrofi ambientali prodotte dall’eruzione di grandi vulcani, impatti di corpi celesti, epidemie e via discorrendo, lasciando aperto l’interrogativo del perché questi fattori dovrebbero aver portato all’estinzione di tutti fuorché Homo sapiens. Evidentemente ciò che gli ecologi chiamano esclusione competitiva si è verificato anche per le specie di Homo che utilizzavano le stesse risorse, o si ritrovavano nella stessa area geografica, una delle due soccombe e l’altra si espande fino ad occupare tutto lo spazio disponibile, e nel caso di interfecondità scatta anche la competizione sessuale: cibo, acqua, rifugi e partner riproduttivi. I Neanderthal, specificatamente europei, si trovavano padroni incontrastati da almeno 130.000 anni, una datazione comunque arbitraria perché in realtà i Neanderthal erano frutto di un graduale processo di specializzazione ai climi e agli ecosistemi delle medie latitudini euroasiatiche iniziato oltre 300.000 anni fa, a partire da uomini del Pleistocene medio vicini a Homo Rhodesiensis, anche loro venuti dall’Africa: era un’abile predatore di mammiferi che attendeva al varco le sue prede durante le loro migrazioni lungo i corridoi ambientali che si ampliavano e si contraevano nel corso dei cicli glaciali interglaciali, era dotato di tecnologie non eccelse ma efficaci, e capace di concepire strategie di caccia collettiva in bande. D’altra parte la prima Europa colonizzata da Homo sapiens fu la regione orientale tra Russia e Balcani, probabilmente raggiunta attraverso l’Anatolia orientale, e da qui ha dilagato sia verso le regioni centro settentrionali sia verso l’occidente e il meridione del continente europeo. I più antichi fossili di Sapiens europeo sono stati scoperti in Romania e datano poco più di 40.000 anni, l’area di Cro-Magnon testimonia la diffusione nelle regioni europee centro occidentali, 30.000 anni fa, dall’estremo sud Italia provengono reperti che attestano la presenza dei Sapiens almeno 28.000 anni fa, e sin sulle coste dell’Inghilterra sud occidentale abbiamo testimonianze di oltre 40.000 anni fa. Comunque sia Homo sapiens in Europa, l’uomo moderno, probabilmente proveniente da est ha invaso completamente il continente tra i 40.000 e i 45.000 anni fa. La genetica indica che la penisola arabica, all’altezza dello stretto di Hormuz, ha ospitato una comunità di uomini usciti dall’Africa tra i 130 e i 120.000 anni fa alla ricerca di risorse marine per soddisfare la propria fame e la voglia di dilagare nel mondo; la base sullo stretto potrebbe essere stata tra i punti di partenza per la diffusione verso l’Asia occidentale e l’Europa. Come colonizzazione dovuta a una diramazione della migrazione costiera che correva lungo le rive dell’oceano, arrivando in Kurdistan e nella regione orientale lungo le coste del Golfo Persico e proseguendo verso nord lungo il Tigri e l’Eufrate, con l’attuale corridoio curdo che comprende una delle aree mondiali più interessanti dal punto di vista della biodiversità. Intorno ai 50.000 anni fa un relativo riscaldamento climatico avrebbe aperto il corridoio. Alcuni psicologi e antropologi ritengono che l’abilità produttiva dell’uomo di Neanderthal fosse basata sull’esperienza, fortemente legata alla ripetizione di sequenze anche complesse di atti perfezionati col tempo e immagazzinati in una memoria a lungo termine; ciò comporta un dispositivo cognitivo che assicura buone prestazioni ma non consente di introdurre con facilità innovazioni, inoltre, in comunità piccole, la perdita di un individuo esperto poteva comportare per la comunità di appartenenza un danno difficilmente riparabile. In un sistema basato sulla tradizione consolidata l’interruzione della trasmissione intergenerazionale di conoscenza porta al collasso della forma di cultura. Al passaggio dal Paleolitico medio al superiore si riscontrano miglioramenti negli strumenti di lavoro e di caccia, spazi abitativi molto più complessi e stabili, sepolture rituali e oggetti utilizzati per abbellimento e vanità, che testimoniano un salto di qualità dell’uomo moderno, tanto che anche il simbolismo e l’arte irrompono in Europa. La transizione culturale che segna il passaggio dal Paleolitico medio a quello superiore è in parte opera dei Neanderthal, svegliatisi dal loro torpore sotto la pressione competitiva esercitata dai nuovi arrivati Sapiens. Ci sono molte testimonianze archeologiche di lavori del tardo Neanderthal che sono frutto non di imitazione ma di emulazione: con imitazione si intende la ripetizione di una procedura costruttiva di cui si è potuta osservare direttamente l’esecuzione, mentre l’emulazione comporta il tentativo di riprodurre con tecniche proprie oggetti costruiti da altri. Indubbiamente i Sapiens hanno portato più flessibilità e fantasia e più capacità di programmare le proprie azioni a lungo termine, frutto di una forma più avanzata di memoria di lavoro e di una maggiore capacità di produrre rappresentazioni mentali del mondo esterno, il tutto unito ad una maggior versatilità  linguistica.
    Anche le abitudini alimentari erano diverse. Le analisi isotopiche dei reperti ossei di Neanderthal e Sapiens di 30.000 anni fa mostrano che le ossa dei primi hanno un profilo più marcatamente da predatori di grandi mammiferi di ecosistemi terrestri; anche i reperti ossei provenienti da località costiere rispecchiano questo profilo dietetico tipicamente carnivoro, pur contemplando la possibilità che in assoluta mancanza d’altro l’uomo di Neanderthal potesse attingere a risorse marine. Completamente diversa la situazione per i Sapiens: i loro rapporti isotopici confermano una dieta più varia che include anche grandi quantità di cibo proveniente da ecosistemi acquatici, fiumi, laghi e ambienti costieri, presupponendo tecniche e strategie di caccia differenti, non solo dovute al miglioramento delle tecniche ma anche alla maggiore immaginazione. La diversificazione trofica è la strategia che consente di mantenere bassa la competizione tra due popolazioni o specie, favorendo la loro coesistenza, ma ciò non è accaduto nel caso delle due popolazioni europee. Pur non essendo identiche le diete delle due specie non erano nemmeno troppo diverse. Le grandi prede erano quelle preferite da entrambi, ma il fatto di riuscire ad accaparrarsi più efficacemente anche tutta una serie di risorse minori ha assicurato ai Sapiens una riserva trofica notevole anche laddove la caccia intensiva da parte di entrambi i gruppi di uomini portava alla scomparsa locale dei grandi erbivori. Gli studi di genetica dimostrano che la separazione tra le popolazioni che hanno prodotto i Neanderthal e quelle da cui ha avuto origine l’uomo moderno è avvenuta tra 270.000 e i 140.000 anni fa. Ciò nonostante le ricostruzioni genomiche indicano che c’è stato un contributo dei Neanderthal alla costruzione del genoma moderno extra africano, che va dall’1 al 4% del totale, segno inequivocabile di un teatro di azione probabilmente corrispondente al Levante dove uomini moderni Neanderthal si sono alternati nell’occupazione delle stesse aree per varie decine di migliaia di anni e quindi potrebbero avere avuto molte occasioni di contatto. Contatto e ibridazioni iniziali avvenuti fuori dell’Europa, se così fosse non si spiegherebbe perché le tracce di ibridazione sono arrivate anche in Estremo Oriente e in Oceania. Una parte preponderante dei nostri geni, dal 96 al 99% sono di recente origine africana, con un quadro è di sostanziale sostituzione e con qualche moderato ma importante elemento di miscelazione.
    Tra 50.000 e 30.000 anni fa un’altra specie di uomo viveva in una caverna sui Monti Altai nel sud della Siberia, una vecchia dimora abitata da almeno 250.000 anni, una specie sorella dei Neanderthal chiamata “uomo di Denisova”: mentre i Neanderthal si guadagnavano la parte centro occidentale dell’Eurasia l’uomo di Denisova si sistemò più ad Est. La cosa straordinaria è che almeno il 4,8% del DNA nucleare di individui Papua e delle isole Bouganville sembra di essere di origine denisoviana. A ciò si aggiunga la scoperta che la migrazione umana verso l’estremo Oriente fu molto più lunga di quel che era dato sapere, essendo articolatasi seguendo la costa dell’Oceano Indiano, il periplo del subcontinente indiano e saltando in Nuova Guinea attraverso la Sonda e la Linea di Wallace, sia con brevi traversate di tratti di mare che sfruttando terre un tempo emerse. Un’altra evidenza di miscelazione la troviamo tra i melanesiani che tra contributo dei Neanderthal e dei denisoviani si ritrovano un bel 7,5% del loro DNA nucleare di provenienza diversa, con le specie Sapiens e denisoviani al momento della scomparsa di questi che non erano completamente distinte.
  4. Impronte di caccia
    Il capitolo, iniziando dall’analisi delle cosiddette estinzioni di massa, le cinque più grandi della storia del nostro pianeta, affronta l’argomento dell’interazione tra le comunità biologiche e l’ambiente, le interazioni ed i cicli di retroazione che ne governano l’evoluzione. Per arrivare a definire i rapporti diretti tra la presenza del più grande ed efficace predatore della storia della Terra analizzando i rapporti diretti o meno tra l’espansione dell’uomo e la scomparsa della grande fauna nel tardo Pleistocene.
    Una comunità biotica è l’insieme di tutti gli organismi che popolano una determinata area geografica in un determinato momento e, per estensione, potremmo quindi considerare la Terra come un’unica gigantesca comunità biotica.
    Le specie della comunità sono legate tra loro da una moltitudine di rapporti, dalla predazione alla competizione, ai rapporti mutualistici, e si scambiano materiali ed energia. Inoltre, le comunità interagiscono con le componenti non biologiche dell’ambiente -suolo, atmosfera, acqua- generando un sistema che integra componenti biologiche e non, strutturalmente e funzionalmente coeso, quello che comunemente viene chiamato ecosistema. Questo tipo di teorie del XX secolo vedono la loro espressione estrema nella Teoria di Gaia, formulata intorno al 1970 dal chimico inglese James  Lovelock e dalla microbiologa Lynn Margulis. Secondo questa teoria il pianeta sarebbe quindi un unico globale ecosistema, e cioè un sistema integrato dove le innumerevoli componenti biotiche, le singole specie, dai batteri ai grandi mammiferi, e quelle abiotiche, suolo, atmosfera, acque interne e oceaniche, ma anche il clima, sarebbero legate tra loro da processi cibernetici di regolazione che sostanzialmente ne produrrebbero il continuo adattamento alle oscillazioni endogene ed a quelle di origine esterna, determinando una generale stabilità dinamica della Terra. In pratica qualunque organismo vivente oltre ad essere influenzato dall’ambiente lo modifica attivamente, e il ruolo fondamentale per la sopravvivenza dell’intero sistema è attribuibile al lavoro chimico svolto dai batteri. Per gran parte della storia della Terra, ovvero per miliardi di anni, i batteri sono stati gli unici viventi regolatori delle caratteristiche chimico-fisiche del pianeta e ancora oggi è sulla loro attività che poggiano le basi di tutti gli ecosistemi. Ed è alla loro evoluzione che le forme di vita attuali devono la loro esistenza.
    Indubbiamente la Teoria di Gaia è affascinante, sia per le sue forti implicazioni filosofiche, sia perché una seria politica di conservazione ambientale non può che partire da una visione globale del sistema Terra, ma che le cose stiano così o questa visione sia eccessivamente inclusiva una cosa è certa: le integrazioni tra le diverse componenti del pianeta esistono e non possono non essere considerate.
    Tornando alle singole comunità biotiche, due ecologi della prima metà del XX secolo le hanno definite e studiate, soprattutto quelle delle terre emerse, arrivando a concepire due modelli diversi e per certi aspetti alternativi. Da una parte, Henry Gleason sottolineava il carattere individualistico dell’appartenenza delle diverse specie di una certa comunità in un modello dove le popolazioni di ciascuna specie si sistemano ovunque esistano le condizioni climatiche e trofiche adatte alla loro persistenza. Questa interpretazione della comunità vede quindi un raggruppamento occasionale di popolazioni che si trovano lì ciascuna per le proprie esigenze biologiche e per le proprie caratteristiche adattative, una posizione estremamente egoistica che estende i concetti del famoso biologo inglese Richard Dawkins e della sua teoria del “gene egoista”. Le popolazioni sono insomma viste come un gruppo di persone in attesa del treno che si ritrovano insieme solo per la comune esigenza di viaggiare da un posto all’altro in quel determinato giorno, ciascuno per le proprie esigenze. Frederic Clements, d’altra parte, sottolineava invece il carattere integrato della comunità, dove le singole popolazioni, di solito, non lavorano da solisti ma interagiscono stabilmente con le altre, che lo sappiano o meno. Usando la stessa metafora in questo caso possiamo figurarci un gruppo di amici che noleggiano un veicolo per andare a farsi una gita collettiva da qualche parte. Questa visione della comunità, e quindi il sistema integrato di popolazioni, generato e mantenuto dalle interazioni biotiche che le legano, la trasforma in una sorta di superorganismo che ha un suo sviluppo dall’inizio alla fine della sua esistenza, né più né meno come il percorso ontogenetico di un organismo tra fecondazione e morte.
    Hanno entrambi ragione. Lo studio delle comunità dei più diversi ecosistemi, dalle savane africane alla tundra, dai fondali oceanici alle foreste tropicali, dimostra che ciascuna comunità si colloca in un qualche punto tra l’estrema occasionalità e l’insieme integrato; alcune comunità sono associazioni fortemente chiuse e coese, mentre altre sono costituite da soggetti molto più opportunisti. La comunità coesa è generalmente resiliente, cioè robusta rispetto alle variazioni esterne come quelle climatiche, ma è molto sensibile alle variazioni di struttura interna; se una popolazione del gruppo viene eliminata o comunque messa in difficoltà dal punto di vista demografico, come risultato si può produrre una disgregazione dell’intero sistema. Le comunità alla Gleason invece sono meno sensibili a questo tipo di perturbazioni demografiche interne, ma rispondono singolarmente alle variazioni ambientali, tanto che le modificazioni della loro struttura possono essere utilizzate come indici biotici del cambiamento climatico e dello stress ambientale antropogenico. I due ecologi erano comunque d’accordo sul fatto che le comunità non si mantengono mai inalterate nel tempo. Le specie che le compongono e la loro abbondanza, le relazioni biotiche, i flussi di energia e di materiali interni alla comunità e i trasferimenti tra la comunità e l’ambiente abiotico e viceversa, sono tutte caratteristiche che si modificano nel tempo.
    E’ questo un concetto centrale nella moderna ecologia: la successione. Ancora con due punti di vista diversi, e probabilmente entrambi validi e sovrapponibili, secondo Gleason le successioni costituiscono la risposta della comunità alla variazione delle condizioni al contorno, geologiche e climatiche: cambiano le condizioni, cambia il profilo complessivo dell’associazione. Secondo Clements invece, le successioni sono prevalentemente prodotte dalla dinamica delle interazioni tra le diverse componenti biotiche dell’ecosistema, sono cioè processi autogeni. Questi modelli, che hanno fatto la storia dell’ecologia del XX secolo, e che hanno implicazioni pratiche di enorme attualità per la conservazione e gestione dei sistemi naturali, hanno un campo di applicazione locale o regionale e si riferiscono a orizzonti temporali che vanno dai giorni alle decine o centinaia di anni.
    Ma le stesse idee generali possono essere traslate a livello globale su scale temporali dell’ordine di grandezza delle grandi ere geologiche, ovvero milioni di anni. In base a questi modelli lo studio delle grandi catastrofi biotiche può essere affrontato non soltanto in termini statistici ma con i modelli dell’ecologia delle comunità e delle successioni aggiungendovi il fattore evoluzione, ovvero il cambiamento delle specie nel tempo o la loro sostituzione. Indipendentemente dalla natura del fattore di innesco, il crollo della produzione primaria è sempre il fattore che determina il tracollo del sistema.
    Ogni volta che si verifica un evento di estinzione di massa la comunità passa per una sorta di “collo di bottiglia” e si determina una variazione a tre stadi della struttura della comunità: un sottoinsieme delle specie precedenti la crisi scompaiono rapidamente e selettivamente, alcune specie sembrano scomparire perché occultate in zone rifugio, infine, in seguito, dopo la crisi, le specie che erano apparentemente scomparse si espandono e si accompagnano alla comparsa di nuove.
    Secondo questa impostazione, le grandi estinzioni di massa, che come abbiamo visto si sono verificate almeno cinque volte nell’ultimo mezzo miliardo di anni, sono i fenomeni maggiori di un’incessante rimodellamento delle comunità del pianeta, una mega successione globale generata sia dall’interazione di processi interni di natura biotica sia da dinamiche esterne: le grandi variazioni climatiche, le situazioni estreme dovute all’impatto di un asteroide o il permanere di episodi di vulcanismo estesi nel tempo e nello spazio, in grado di alterare pesantemente e per tempi lunghissimi il clima complessivo della Terra.
    Sta di fatto che di tanto in tanto il sistema va fuori dall’equilibrio. L’idea generale che si ricava dalle centinaia di studi, sempre più incisivi e circostanziati su questi argomenti, è che ci sia sempre in ballo un insieme mescolato di concause, che a un certo punto produce una rapida, profonda transizione ecologica da uno stato al successivo, un prima e un dopo nettamente separati. E’ come se saltassero i meccanismi di regolazione per accumulo di tensione, e l’equilibrio metastabile venisse a crollare anche a seguito di un singolo evento puntiforme che funziona da innesco. La famosa goccia che fa traboccare il vaso.
    Il capitolo si conclude con l’analisi del rapporto di concausa tra cambiamenti climatici e fattore uomo e sul perché le specie homo precedenti a Sapiens non abbiano contribuito alla sparizione delle grandi specie in maniera così massiccia e devastante quale fu l’azione della nostra specie, soprattutto a causa della mancanza di catene trofiche alternative per le specie non Sapiens e l’instaurarsi di un equilibrio tra predatore e preda quando c’è un solo tipo di rapporto.
  5. Impronte collaterali
    Il fuoco e l’uomo. Questo capitolo è invece dedicato al ruolo che, fin dall’inizio, le specie più evolute di Homo hanno avuto come ingegneri ambientali, ingegneri ambientali, costruttori e distruttori allo stesso tempo, allo sterminio dei grandi erbivori, all’impatto ambientale, al ruolo che il fuoco, controllato dall’uomo, ha da sempre nella definizione del paesaggio e nel controllo delle risorse naturali. L’uomo ha sicuramente inventato molte cose, ma non il fuoco. Gli incendi dilagano sul pianeta almeno da 400 milioni di anni e sono stati molto frequenti tutte le volte che l’atmosfera si arricchiva di ossigeno e c’era abbastanza carburante da bruciare. Il fuoco ha un lungo intricato rapporto con la vita. Per vivere deve alimentarsi di biomassa vegetale, ma per farlo ha bisogno di ossigeno che è un gas prodotto dalla vita: cianobatteri, alghe, piante. E prima che l’uomo inventasse il modo di controllarlo i fattori di ignizione erano molteplici, fulmini ed eruzioni vulcaniche innanzi tutto. Ma il fuoco a sua volta modifica la vita, a tutti i livelli della complessità biologica, dagli organismi agli ecosistemi. I botanici hanno descritto una quantità di adattamenti che permettono a varie specie di piante di resistere agli incendi, addirittura ci sono piante i cui semi vengono rilasciati solo se l’involucro che li contiene è investito dalle fiamme e altre i cui semi germinano solo se vengono riscaldati dall’incendio o se vengono a contatto con sostanze volatili rilasciate dalla combustione; ancora, molte specie di erbe pur se completamente bruciate restano integre nella loro capacità di germogliare una volta passato il fuoco. Alcune piante hanno caratteristiche strutturali che favoriscono la diffusione delle fiamme; altre contengono sostanze altamente infiammabili che fanno sì che intorno alla pianta si crei una sorta di terra bruciata dove solo i propri semi possono ricrescere. Queste relazioni tra fuoco e piante hanno avuto una enorme importanza evolutiva per la vegetazione del pianeta e per lo sviluppo dei suoi ecosistemi. Il successo planetario delle piante Angiosperme, le piante i cui semi si originano all’interno di un involucro protettivo, dipende dal sodalizio che queste piante stabilirono con il fuoco. Avendo un miglior sistema di circolazione dell’acqua nelle loro foglie ne ha fatto aumentare l’efficienza della loro fotosintesi, rendendole molto più rapide nella crescita e nell’accumulo di biomassa, e ciò le ha rese meno vulnerabili al fuoco rispetto alle Gimnosperme grazie alla loro maggiore diffusione. Incendi più frequenti, favoriti dall’accumulo di biomassa combustibile hanno quindi prodotto la diffusione delle Angiosperme che a loro volta hanno favorito la frequenza degli incendi. La distribuzione dei grandi biomi terrestri, dai deserti alla tundra, dalle praterie alle savane e alle foreste, è fondamentalmente determinata da pochi principali fattori climatici come la temperatura e le precipitazioni oltre che dall’altitudine, ma la loro distribuzione fine dipende fortemente anche dal fuoco. Il regime degli incendi dipende, nel tempo e nello spazio, dal clima. La quantità di materiale combustibile è infatti legata alla produttività della comunità vegetazionale, che a sua volta dipende dalle precipitazioni e dalla temperatura, mentre la combustibilità del materiale varia molto in relazione al suo contenuto in acqua. Anche la frequenza dei fulmini, uno dei principali fattori di ignizione, dipende dal clima e dalle stagioni. Ma anche con il clima il fuoco stabilisce un rapporto non propriamente passivo. La frequenza degli incendi può generare variazioni climatiche rapide o a lungo termine, su scala regionale o globale, che a loro volta producono una intensificazione della frequenza degli incendi. Su tempi lunghi un feedback positivo tra fuoco e clima è dato dal fatto che gli incendi rilasciano grandi quantità di biossido di carbonio attraverso la combustione del materiale vegetale e questo determina un incremento della concentrazione di questo gas, che a sua volta fa aumentare la fotosintesi globale, cioè la produzione di vegetazione sul pianeta e quindi di materiale combustibile. Ogni anno gli di qualsiasi natura rilasciano nell’atmosfera circa quattro miliardi di tonnellate di CO2.
    Anche se non l’ha inventato, l’uomo può farsi vanto di essere l’unico animale ad aver preso una certa confidenza con il fuoco e ad aver imparato presto a trarne vantaggi. Il rapporto tra uomo e fuoco è antichissimo. La sua domesticazione, provata con certezza dal ritrovamento di materiali la cui combustione è sicuramente artificiale, risale ad almeno 700.000 anni fa, ma le scoperte che attestano l’uso deliberato e controllato del fuoco sono di poco meno di 200.000 anni fa.
    E da allora l’uomo ha iniziato ad utilizzare il fuoco come strumento di controllo dell’ambiente circostante. Già i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico Superiore erano in grado di modificare il regime degli incendi naturali a loro piacimento, favorendone o limitandone la diffusione, producendo uno scenario ecologico molto diverso da quello di partenza. Così come ancora oggi fanno molti popoli aborigeni dell’Australia o della Tasmania, l’abile uso del fuoco consentiva di abbattere alberi, rinnovare vegetazione senescente, creare zone aperte e produttive dove si concentrava la selvaggina, oltre ovviamente ad arrostire od affumicare il cibo, stanare animali o scacciarli.
    E il peso dell’impronta antropogenica ancora una volta è andato aumentando millennio dopo millennio fino ad arrivare alla situazione attuale, inequivocabilmente documentata e misurata dalle osservazioni satellitari, che registra devastazioni e distruzioni da incendi deliberatamente provocati, per migliaia di chilometri quadrati di territorio, ogni anno, mettendo in pericolo uno strumento preziosissimo che può aiutare a mitigare gli effetti del cambiamento climatico in atto.
    Anche qui, il passaggio dal delicatissimo equilibrio bio-abiotico delle comunità, viene messo in pericolo e completamente destabilizzato dall’impronta umana.
  6. L’impronta costruita
    Partendo dall’impronta ecologica attuale, dal consumo procapite di risorse, che oggi ha una città come Hong Kong, il capitolo affronta con ricchezza di argomenti la transizione dal Paleolitico al Neolitico. La cosiddetta “rivoluzione del Neolitico”. Come lo sviluppo e la diffusione della selezione e dell’utilizzo di vegetali specifici, la domesticazione vegetale ed animale. Ma soprattutto come, grazie alle migrazioni, le informazioni siano state trasferite nello spazio e nel tempo, di tribù in tribù, perché quando si spostavano, nel Neolitico, le popolazioni si portavano dietro tutto l’occorrente alla loro stessa sopravvivenza, il cosiddetto “pacchetto Neolitico”: piante, semi, strumenti, animali. La rivoluzione agricola e il ruolo fondamentale che ebbe lo sviluppo della metallurgia. Il capitolo ci guida nella comprensione di come sia stato possibile che da una lunga infanzia di fruizione passiva dei prodotti naturali degli ecosistemi, di mobilità interrotta al massimo da un sedentarismo transitorio occasionale, di sostanziale qualità ismo sociale , di vita spirituale è relativamente semplice , di bassa interferenza ambientale, sia improvvisamente (improvvisamente?) emersa la capacità di controllare attivamente la produttività vegetale e animale e, insieme a questa, una struttura economico sociale completamente (completamente?) nuova e un sistema ideologico totalmente (totalmente?) diverso.
    Perché solo in alcune aree è comparso il Neolitico? Molte teorie fanno riferimento ovviamente alle variazioni climatiche e questa impostazione si è fatta ancora più evidente quando la paleoclimatologia del tardo Quaternario ha cominciato a sfornare dati sempre più dettagliati e affidabili che hanno dimostrato come, con una serie di specifiche varianti regionali, alcuni andamenti dei parametri climatici tra la fine del Pleistocene e l’inizio dell’Olocene, tra cui la temperatura e l’umidità, si siano manifestati in modo omogeneo su una scala geografica praticamente globale. La cronologia dettagliata della comparsa dell’economia agricola nel Vicino e nell’Estremo Oriente sembra dimostrare che vi è una coincidenza sostanziale tra queste fluttuazioni climatiche e la dinamica generale degli eventi nelle due regioni. E l’archeologia supporta con prove circostanziate il miglioramento climatico che si verificò tra 16.500 14.600 anni fa, con una serie di popolazioni di cacciatori raccoglitori che saturano il Levante, la parte occidentale di quella Mezzaluna Fertile che una grande quantità di studi archeologici e di genetica indicano come uno dei maggiori centri d’origine dell’economia agricola e, con le debite differenze cronologiche e ambientali anche in Cina le cose sembrano essersi svolte nello stesso modo. L’autore affronta comunque anche le cosiddette teorie demografiche, visto che le oscillazioni climatiche da sole non sono sufficienti a stabilire come e se il clima sia stato la causa esclusiva del fenomeno. Se il clima è così decisivo perché l’economia agricola non è partita contemporaneamente in tutte le aree d’origine? Ma forse l’aspetto più interessante che il capitolo mette in evidenza è che, dopo mezzo secolo di ricerche archeologiche, archeozoologiche, archeobotaniche, l’idea canonica di una rapida rivoluzione è stata messa in crisi, fornendo dettagli sempre più evidenti dell’esistenza di una complessa fase intermedia, nel corso della quale varie popolazioni umane hanno dato luogo a una variegata sperimentazione di forme di sfruttamento di un numero sempre più ampio di risorse , di un uso progressivamente più intensivo di alcune specie vegetali e animali , di un controllo sempre più spinto della produzione e , in definitiva , di una crescente modificazione degli ecosistemi. Un’evoluzione lenta e progressiva, con intervalli temporali estremamente brevi, quasi fosse decennio dopo decennio: e l’archeologia ancora una volta ci racconta come già 23.000 anni fa, al culmine dell’ultimo periodo glaciale, gli uomini che abitavano in Levante praticavano già un’economia basata sull’utilizzo di semi di piante erbacee, resti di ghiande, mandorle noccioli di olive, semi di fichi, di uva e di piante medicinali, a complemento della loro dieta carnivora costituita da gazzelle, uccelli, roditori, pesci e molluschi. E non solo: tracce di tostatura e macinazione di molti semi, processo che ne aumenta moltissimo l’indice glicemico e la conservabilità. Sempre l’archeologia ci riporta l’uso di macine già 45.000 anni fa. Una lunga sperimentazione che ha portato infine a quel che fino a poco tempo fa appariva quasi comparsa dal nulla: l’agricoltura del Neolitico. E ovviamente, anche per gli animali, l’acquisizione delle caratteristiche funzionali e comportamentali della domesticazione è stato il risultato finale di un lungo rapporto di manipolazione da parte dell’uomo, inizialmente teso a massimizzare il ritorno energetico attraverso la caccia selettiva e in seguito a modificare la struttura di popolazioni in stato di libertà per controllarne le dinamiche riproduttive. Anche per gli animali vale il principio che solo alla fine di un complesso percorso co-evolutivo con l’uomo la specie selvatica, geneticamente modificata in conseguenza di queste interferenze, si ritrovava da una parte intrappolata in una prigione ecologica di cui l’uomo aveva le chiavi, ma al tempo stesso protetta da una culla antropica entro cui realizzava la propria fitness.
    E’ così che Homo sapiens passa dall’essere specie invasiva a perturbativa, non certo l’unica ma certamente in modo speciale, perché sono speciali la sua biologia e il suo sviluppo e perché le dimensioni culturali della sua nicchia sono molto più ampie di quelle di altri animali.
  7. L’impronta rivelata
    Il settimo ed ultimo capitolo è quello rivelatore, forse il più complesso nonostante riguardi essenzialmente l’Olocene, gli ultimi 10.000 anni di storia dell’umanità e del pianeta, talmente pochi rispetto al tempo profondo della geologia che se l’intera storia della Terra fosse compressa in 24 ore, la presenza umana risalirebbe all’ultimo minuto e l’Olocene agli ultimi istanti. E’ nel corso di quest’epoca che gli ecosistemi del pianeta, regolati per i precedenti milioni di anni da fattori sostanzialmente climatici, sono passati sotto un dispotico dominio umano. E di ciò gli scienziati ne hanno coscienza da almeno un secolo, sottolineando come l’umanità, oltre trasformare la superficie terrestre, l’uomo abbia addirittura modificato i grandi cicli biogeochimici di elementi fondamentali quali il carbonio e l’azoto.
    Si inizia con un lungo ed articolato paragrafo in cui si raccontano, con dovizia di particolari e riferimenti, le vicissitudini demografiche del genere umano, passato da una distribuzione spazio-temporale a lungo discontinua e fluttuante, con cicli di espansione e contrazione, al popolare praticamente ogni angolo della Terra grazie alla straordinaria mobilità e alla capacità di forzare i limiti del condizionamento ambientale e delle strutture delle reti trofiche tipici di Homo sapiens. Fino alla genesi della cosiddetta “metapopolazione”, un insieme di popolazioni locali riunite in una fittissima rete genetico-demografica, riducendo la vulnerabilità dei nuclei locali rispetto alla fluttuazione delle risorse e alle crisi climatiche, riducendo quindi la probabilità media di estinzione di ciascuna di esse e, allo stesso tempo, ampliando la probabilità di fondare nuove popolazioni locali, conferendo idoneità abitativa a un numero crescente di zone della Terra che sarebbero rimasti altrimenti inidonei. Un clamoroso successo evolutivo quindi: dalla metapopolazione alla popolazione globale. Da piccolissime bande di individui, formate da 20-50 persone, collegate in gruppi regionali maggiori di 500-1000 persone, all’occupazione stabile di quasi tutte le zone del pianeta, tanto che la percentuale di superficie emersa della Terra che non contiene segno alcuno di presenza umana, attuale o passata, è pari a poco più del 10 percento.
    A seguire una rigorosa analisi dell’impatto diretto più evidente, per dirla con le parole del geologo americano Williams “La deforestazione è stata l’espressione principale del processo di trasformazione antropica della Terra”. Oggi gli scienziati hanno a disposizione dati paleobotanici, stratigrafici, sedimentari, archeologici, e altro ancora, conservati in specifici database a disposizione di chiunque voglia farne uso, che consentono di ricostruire l’andamento dei processi di scomparsa e/o ritorno delle aree forestali, con o senza cambiamento di specie arborea per motivi magari climatici, e soprattutto distinguendo tra azioni naturali o disboscamenti derivanti da precisi piani e scopi antropogenici. Le tracce archeologiche sono inoltre fondamentali. Durante la rigogliosa Età del Bronzo il rame, dai minerali che lo contengono veniva estratto e lavorato tagliando e bruciando boschi, foreste, fondendo la materia prima in forni alimentati a legname, dove bruciavano tutto il bruciabile. C’è una famosa area archeologica in Giordania che è stato un vero e proprio polo metallurgico per quasi 9.000 anni: dal Neolitico fino alle epoche romana e bizantina. Sono state ritrovate qualcosa come 250.000 tonnellate di scorie dalla produzione metallurgica, in soli 12 chilometri quadrati: ci vogliono vari milioni di tonnellate di legname per produrre una tale quantità di scorie.
    Ma fu devastazione o disegno? La polemica tra i sostenitori della «devastazione» contrapposti a quelli che parlano di «disegno» non si esaurirà mai, è antica, così come antica è l’azione che l’umanità esercita nei confronti dell’ambiente. Ma c’è qualcuno che rifiuta l’assunto tradizionale «trasformazione=degradazione» interrogandosi, ad esempio, sul reale funzionamento degli ecosistemi del bacino del Mediterraneo, a cui tanto deve la storia dell’umanità, «disegnati» dall’uomo nel Neolitico e costruiti nei secoli e nei millenni di perfezionamento dell’agricoltura e delle sue tecniche. Oggi che va così di moda il termine sostenibilità ci si dovrebbe chiedere se quanto realizzato finora non lo sia davvero, sostenibile, visto che per secoli ha egregiamente funzionato. E addirittura, anche se il verdetto per la gestione della cosiddetta biodiversità è decisamente negativo, con la distruzione sistematica e un’ecatombe floro-faunistica, i sostenitori del «paesaggio disegnato» non negano la scomparsa di tutte o quasi tutte le specie originarie ma affermano che ciò che ne seguì non fu il vuoto, ma l’introduzione di una comunità di altre specie, domestiche o selvagge, importate o trasportate involontariamente.
    E, sembra un paradosso, ma non lo è, l’ecologia delle comunità riconosce che il «disturbo», sia esso antropico meno, non è necessariamente un fattore negativo per la biodiversità. Numerosi studi in proposito dimostrano che il massimo livello di biodiversità non si registra generalmente in assenza di perturbazioni bensì in corrispondenza di valori intermedi di disturbo. L’estrema variabilità della strategia produttiva agro-silvo-pastorale, che nel Mediterraneo ha la sua massima espressione, sostanzialmente ottenuta con pratiche di moderato disturbo ambientale, hanno consentito di mantenere elevati valori di biodiversità. Sembra incredibile. L’Olocene segna il passaggio di un pianeta da “nature controlled” a “human dominated”.
    Il capitolo si chiude infine, doverosamente, con l’analisi dell’impatto antropogenico sulle emissioni di gas serra e, tenendo conto che i dati sono di 10 anni fa, i numeri e come essi siano cambiati in quest’ultimo arco di tempo, è impressionante ancora una volta. La ormai ben nota storia della crescita dei valori di biossido di carbonio e metano viene analizzata con cura e la conclusione è nota: il clima di questo strano interglaciale continuerà a restare tale per un tempo molto più lungo di quanto non si sia mai verificato nell’ultimo milione di anni, e porterà ad una transizione irreversibile dell’ecologia e della stessa geologia del pianeta facendo guadagnare alla specie umana, auto-attribuito, un posto nella nomenclatura delle grandi epoche geologiche: Antropocene. La combinazione tra gli effetti dell’azione umana con quelli dei fattori extra antropici, esterni o interni al pianeta, sono i più drammatici. Sotto gli occhi di tutti.

L’autore presenta il suo libro

ll video è parte del ciclo di lezioni del Centro Culturale “Ambiente. Tra natura, storia e cultura”, della Fondazione Collegio San Carlo, tenutesi tra settembre e dicembre 2018, che si è articolato in sei conferenze, ad indagare in una dimensione storica il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente e affrontare le principali questioni legate alle tematiche ambientali che si presentano agli occhi del mondo contemporaneo. La quinta conferenza, dal titolo “L’impronta ecologica. L’mpatto delle comunità umane sugli ecosistemi terrestri”, è stata tenuta da Guido Chelazzi, professore di Ecologia all’Università di Firenze.

Intervista all’autore
di Pierpaolo Marconi
23 aprile 2013